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 2011  marzo 10 Giovedì calendario

«Boris diventa film: cinema nel mirino dopo la televisione» - Una volta si diceva «a furor di popolo»

«Boris diventa film: cinema nel mirino dopo la televisione» - Una volta si diceva «a furor di popolo»... «Eravamo sicuri di avere un progetto forte, ma un successo così nessuno l’aveva previsto», dice il protagonista Francesco Pannofino. Il trailer è uno dei più scaricati sulla rete. Boris, dopo le tre serie cult trasmesse da Sky, diventa un film per le sale. Essendo una presa in giro, il dietro le quinte su capricci e idiosincrasie, velleità e voluttà degli attori, non poteva che uscire il primo aprile (produzione Wildside e Rai Cinema, distribuzione 01). L’idea e il cast, Pietro Sermonti, Carolina Crescentini, Antonio Catania, Giorgio Tirabassi, non cambiano, cambia solo la grandezza dello schermo preso di mira: dalla fiction che prende in giro se stessa alla messa a nudo del cinema italiano. E dunque Pannofino, l’attore di lungo corso che da ragazzo assistette alla strage di Aldo Moro a via Fani («ero dall’altra parte della strada, sentii gli spari senza vedere nulla, non fui molto utile»), il doppiatore di George Clooney, riveste i panni del regista René Ferretti. Il quale tenta il grande salto, dalla brutta fiction al cinema d’autore: «Mi rimetto in pista, già sapendo di dover fare la solita monnezza, tranne un piccolo corto dove ho dimostrato di essere capace, quando mi si prospetta l’occasione di girare un film tratto da La casta, il libro di Stella e Rizzo, i giornalisti del Corriere». Al cinema come arriva il suo personaggio? «Aveva appena lasciato un set televisivo, la produzione voleva costringerlo a una scena al rallentatore col giovane Papa Ratzinger che corre felice sui prati per la scoperta di un vaccino. Troppo anche per Renée. Che si libera dei suoi scalcinati collaboratori e ne chiama di nuovi, ma hanno la puzza sotto al naso, gli preferiscono Virzì. Finisce presto la sua avventura e riprende la vecchia troupe». Cosa c’è di nuovo nel piatto? «Si rimettono in moto quei meccanismi comici con nuove idee. Speriamo sia ecumenico, che lo vedano fan vecchi e nuovi. Si ride molto. Il complimento più bello l’ho avuto dai tre sceneggiatori e registi, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo: dicono che Renée è proprio come loro l’avevano immaginato». La vostra armata Brancaleone è lo specchio di come vanno le cose in Italia? «Il film denuncia un certo tipo di andazzo, come se il Palazzo del potere ti possa condizionare nel confezionare qualsiasi cosa, anche una serie tv o un film. C’è un tentativo di risveglio, però prevale la rassegnazione alle bugie. Si finisce nel fango da cui si era partiti». Francesco, il mediano che diventa goleador: questo è il suo successo tardivo, il primo vero treno che ha preso in corsa? «La mia è una carriera lenta ma lunga, in trent’anni che faccio questo mestiere (ne ho 52), per lungo tempo mi sono adagiato sul doppiaggio, che mi dava occupazione e il mutuo da pagare. Boris è stato il trampolino di lancio, gli addetti ai lavori si sono accorti di me e ho recitato con tutti, Pieraccioni, Licini, Miniero e Genovese, Brizzi. Presto riporterò Nero Wolfe in tv». Sarà una fiction «di peso»? «Non mi metterò a imitare Tino Buazzelli, che lo lanciò nella serie del 1970. Certo sto mettendo qualche chilo sulla mia pancia rotonda, e addio sensi di colpa quando mi alzo da tavola». Prima del successo, con le calosce nel fango dei provini? «Ai provini non mi prendevano proprio. Mi dicevano, non sei né alto né basso, né giovane né vecchio, né bello né brutto: chi sei? La mia fortuna è che col tempo mi è venuta ’ sta faccia da fijo de ’ na... Più come aspetto che come persona. E in qualche modo paga». Si è mai trovato nella situazione che raccontate nel film? «Sì. Anche peggio. Ho girato in produzioni traballanti perché i soldi non c’erano, film in cui aspetti un cenno da qualcuno che ti dica cosa devi fare». Boris è autoreferenziale e caricaturale? «L’altro ieri un bancario mi ha detto che in ufficio da lui scattano le stesse dinamiche, le gerarchie, la paura di perdere il proprio piccolo potere. Nel cinema è più cruda la cosa. Una volta un tecnico mi apostrofò così: tu chi sei, il morto? D’accordo, era la parte di uno che doveva morire. Ma prima qualche scena ce l’avevo. Caricaturale non direi, alcune situazioni sopra le righe evidenziano i paradossi». Lei come ha cominciato? «Ero indeciso se fare il giornalista, il calciatore o l’attore. Volevo dimostrare a mio padre, carabiniere in pensione, che mi davo da fare. E trovai lavoro come segretario del sindacato attori, all’epoca capeggiato da Gian Maria Volonté in una battaglia che fu vinta: i registi dovevano smetterla di prendere attori dalla strada. I doppiatori si unirono alla lotta. Oggi è raro trovare un attore che si fa doppiare, anche se in alcuni casi sarebbe meglio». Lei è parte in causa, ma un film in inglese lei lo vede doppiato o in originale? «Doppiato. Il livello in Italia è alto. E a molti doppiatori piace quello che fanno, non hanno il complesso del set. Se è vero che Clooney un giorno mi chiamò? Sì, mi ringraziò e mi fece i complimenti. Io replicai: stai imparando l’italiano? Non lo imparare troppo bene, senno’ non ti doppio più». Sua moglie è Emanuela Rossi, la doppiatrice di Michelle Pfeiffer. «Di nuovo insieme dopo la separazione, un figlio che amiamo. Quando urliamo è un bel sentire». Valerio Cappelli