Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  marzo 10 Giovedì calendario

IL CSM E I TIMORI DA ASCOLTARE

I toni severi echeggiati ieri nell’aula del Consiglio superiore della magistratura danno il senso dell’inquietudine che agita non una categoria, bensì un’istituzione. Presieduta dal capo dello Stato, rigoroso osservatore di ciò che sta accadendo intorno alle vicende della giustizia. Quando il capogruppo della corrente più rappresentativa e legata a posizioni «centriste» , Unità per la costituzione, lamenta che a un mese dalla presentazione del disegno di legge sullo smaltimento dell’arretrato giudiziario il ministro della Giustizia non ha ancora richiesto al Csm di esprimere il proprio parere, è come se denunciasse una precisa visione dell’organo di autogoverno dei giudici da parte del potere politico. Svilito nel suo ruolo, declassato a mero strumento amministrativo. E se queste sono le premesse, ha aggiunto, in vista dell’annunciata ed «epocale» riforma «attendiamo non con fiducia ma con preoccupazione che si voglia ascoltare la voce della magistratura attraverso i canali istituzionali a ciò preposti» . Primo fra tutti proprio quel Csm che costituisce uno dei principali obiettivi dei progetti di modifica. In attesa di conoscere nel dettaglio i contenuti della riforma costituzionale immaginata dal governo, dal mondo delle toghe e degli studiosi di Diritto si sono già levate voci autorevoli a difesa di un assetto costituzionale che prima di essere intaccato andrebbe forse valutato in ogni suo aspetto. Non a caso nemmeno due mesi fa, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il primo presidente della Corte di cassazione ribadiva l’essenzialità del «governo autonomo della giurisdizione e dell’indipendenza del pubblico ministero dall’influenza del potere esecutivo, principio di cui è garante il Consiglio superiore della magistratura» . E appena l’altro ieri Cesare Mirabelli, già vicepresidente del Csm e poi presidente della Corte costituzionale, ha segnalato il rischio che l’aumento della componente politica (di derivazione parlamentare, e dunque partitica) del Consiglio possa tradursi in una diminuzione dell’indipendenza della magistratura. Oggi garantita proprio dalla prevalenza della componente «togata» nel Csm. Difficile relegare queste grida d’allarme — che non sono levate di scudi— a pregiudiziale difesa corporativa e di casta, per mantenere privilegi e irresponsabilità, o anche solo una situazione che ha manifestato diverse patologie. Il fatto è che insieme all’obbligatorietà dell’azione penale, l’autogoverno della magistratura è una questione che ha direttamente a che fare con «la democrazia costituzionale che ha garantito la vita democratica del nostro Paese» , per dirla ancora con il primo presidente della Cassazione. Ancora non è del tutto chiaro ciò che verrà fuori dal Consiglio dei ministri, e chissà quante altre volte il progetto di riforma sarà modificato. Ma se allo scopo di diminuire la politicizzazione del Csm si finisse per ampliare la quota dei rappresentanti designati dalla politica, la soluzione apparirebbe quantomeno curiosa. Incrementare il peso della componente espressione del potere politico— contemporaneamente alla creazione di un pubblico ministero separato dall’ordine dei giudici e non più dominus della polizia giudiziaria, a sua volta già istituzionalmente agganciata al potere esecutivo) — rischia di trasformare l’autogoverno della magistratura in un governo non più «auto» , ma pericolosamente condizionato dall’esterno. Ogni ipotesi di riforma è ovviamente legittima, ed è corretto discuterne lasciando da parte posizioni preconcette. Ma vista la posta in gioco sarebbe opportuno chiedere, ascoltare e tenere in debito conto il parere di tutti. A cominciare da chi è direttamente coinvolto dalle trasformazioni che si vorrebbero introdurre.