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 2011  marzo 09 Mercoledì calendario

LA FORZA DEL BRAND NON HA CONFINI

L’acquisizione di Bulgari da parte del gruppo francese Lvmh è stata riportata con evidenza ieri dai media internazionali, attenti al rilievo che il polo del lusso sta conquistando nel mondo. È una notizia che si presta a più di una lettura e che aiuta a farci ragionare sul risalto posseduto dai marchi italiani. Perché Bulgari è innanzitutto un marchio italiano: in esso si concentrano qualità, stile, una tradizione specifica che è riconosciuta come appannaggio del nostro paese. Sarebbe semplicemente impensabile la costituzione di un polo del lusso che non incastonasse i marchi italiani, simboli di prestigio qualificanti, ai quali non si può rinunciare. E non c’è dubbio che il sistema globale continua a valorizzare l’imprinting italiano dei prodotti di successo. Ogni giorno vengono nuove conferme circa il perdurante appeal che mantengono alcune sigle in cui vibra un netto accento italiano.

Ancora ieri a Toluca, in Messico, Sergio Marchionne ha parlato delle attese riposte nella 500 per rilanciare la presenza Fiat in America, che sono affidate a un’auto tra le più fortemente connotate dall’impronta italiana. Anche in quel caso gioca fortemente l’identificazione del prodotto col paese da cui ha avuto origine, seppure le 500 usciranno da una fabbrica messicana, con una potenzialità di 120mila vetture all’anno a partire dal prossimo autunno.

Esistono quindi marchi e prodotti che traggono alimento e spinta da un’immagine consolidata, che racchiude una notevole capacità di evocazione presso il pubblico. Altrimenti non si capirebbe il reiterato interesse per il marchio Alfa Romeo manifestato dalla Volkswagen, pronta a inserirlo tra i suoi brand. D’altronde, la casa tedesca è stata determinata nell’assicurarsi il controllo di un designer come Giugiaro, consapevole del valore che può apportare alla sua produzione. I marchi celebri restano perciò una ricchezza per il nostro paese, a cui si può ancora attingere.

Certo, la differenza sostanziale consiste nel fatto di riuscire a detenere, dietro quelle sigle famose, una capacità progettuale e produttiva che può benissimo prescindere dai gruppi imprenditoriali a cui fanno riferimento i marchi. Spesso, d’altronde, com’è inevitabile, i marchi passano di mano, senza che i clienti finali ricordino in maniera definita quali imprese ne siano momentaneamente in possesso. Così, per esempio, la Ducati è passata sotto il controllo di investitori stranieri e poi di nuovo in prevalenza italiani, senza che ciò abbia intaccato carattere, qualità e struttura produttiva di una casa motociclistica ovunque riconosciuta come italiana. Non è la proprietà, quindi, il nodo dirimente per giudicare se un’attività resta saldamente nel patrimonio imprenditoriale e produttivo dell’Italia. Ciò che conta è non disperdere i contenuti progettuali e realizzativi in grado di salvaguardare la vitalità di un marchio nel tempo, la sua capacità di rigenerarsi, di concorrere alla forza della nostra base economica e industriale.

Ciò detto, merita soffermarsi sulle motivazioni che hanno la cessione delle quote di maggioranza di Bulgari al gruppo Arnault. Francesco Trapani, il rappresentante della famiglia Bulgari che ha guidato l’azienda, ha parlato del cambio di profilo della struttura imprenditoriale che si attua con la cessione. In concreto, ha spiegato Trapani (che guiderà la divisione orologi e gioielli di Lvmh), si tratta di arrivare a una combinazione tra il know-how di Bulgari e le dimensioni del gruppo francese. L’anno scorso Bulgari ha fatto segnare un +15% che ha portato il suo giro d’affari a superare il miliardo di euro. Una dimensione importante, certo, ma che rimane lontana da quella del colosso francese del lusso, con un fatturato superiore di 20 volte. Nel medesimo tempo, la divisione di cui Trapani andrà ad assumere la responsabilità appariva la meno soddisfacente, sicché con l’incorporazione del soggetto italiano si amplieranno in modo significativo presenza di mercato e chance di Lvmh.

Ora, il punto è questo: tutto bene in questa logica d’integrazione, ma perché l’Italia, con le sue imprese e il valore dei suo marchi, non è quasi mai protagonista di aggregazioni internazionali? È giusto che le sue attività siano attrattive, specie quando dimostrino di essere in grado di far affluire investimenti tali da preservarne la specializzazione e la base produttiva, ma può un paese di 60 milioni di abitanti, con la storia imprenditoriale che ha, essere costretta a far sempre da preda e mai, o quasi, da cacciatore?

Qui c’è un limite dell’evoluzione recente del nostro sistema economico su cui varrebbe la pena di soffermarsi, magari a margine di uno dei tanti incontri dedicati a discutere del percorso della nazione in occasione dei 150 anni dell’Unità. Più o meno nel corso dell’ultimo ventennio, l’Italia non ha smarrito solo la capacità di crescere, ma anche le sue ambizioni per i progetti di espansione delle sue imprese oltre i confini nazionali. Dopo l’inizio degli anni Novanta, in concomitanza con Tangentopoli, abbiamo dismesso i piani per diventare più grandi come soggetti economici, come se fossero sproporzionati rispetto alle nostre forze. È un limite che va superato, se si vuole restituire nerbo al nostro sviluppo.