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 2011  marzo 09 Mercoledì calendario

LA PLASTICA DEL FUTURO, PER VOCE ARANCIO


«C’è un grande futuro nella plastica» (così un collega del padre suggerisce a Ben, appena uscito dal college, la strada da percorrere nel film Il laureato. Era il 1967).

3.7 miliardi di bicchieri, 365 miliardi di bottiglie, oltre mille miliardi di sacchetti della spesa. Il mondo li spreca in un solo anno. Ed è solo la plastica più evidente, quella che maneggiamo tutti i giorni. Ce n’è molta altra sparsa attorno a noi. Il suo enorme potere inquinante, aggiunto ai costi in continua ascesa delle materie prime, sta rendendo quasi obbligatoria la ricerca di materiali alternativi. Magari prodotti dalle piante.

Da un punto di vista chimico, le plastiche sono composte da lunghe catene di molecole tutte identiche, i cosiddetti polimeri. Diffusissimi in natura (anche il Dna è un polimero), quelli sintetici, prodotti a partire dal petrolio o dal gas naturale, sono praticamente alla base del mondo sviluppato, dai materiali da costruzione ai giocattoli, dalle apparecchiature elettroniche agli strumenti medici, dalle auto agli aerei.

La produzione annuale di polimeri sintetici si aggira su 250 milioni di tonnellate all’anno. Ed è tutta legata agli idrocarburi fossili.

Oggi il 4% della produzione delle raffinerie è destinato alla creazione di plastiche, ma di questo passo si potrà arrivare al 25%. Un quarto della produzione mondiale di petrolio e gas verrebbe quindi destinato non a far muovere automobili o riscaldare case, ma a fabbricare polimeri sintetici.

Se già al momento di nascere la plastica comincia a dare grattacapi, il problema vero arriva con la sua morte, o presunta tale. Per considerare completamente distrutto un pezzo di plastica ci vogliono decine di anni nella migliore delle ipotesi. Che diventano secoli e secoli se le condizioni non sono ideali. E anche se ridotta a particelle invisibili, la plastica continua ad aggirarsi per l’ambiente, tra l’altro con una particolare capacità di assorbire materie tossiche che possono finire nel ciclo alimentare.

Soldi da un lato, preoccupazioni ambientali dall’altro, ci sono gli ingredienti giusti per cercare alternative. Che potrebbero venire dalle plastiche biologiche, sostanze realizzate a partire da piante o da microrganismi come i lieviti. Chiamate anche biopolimeri, sono sotto l’occhio di ricercatori e industrie perché promettono la realizzazione di materiali plastici con caratteristiche identiche a quelle dei composti sintetici.

Non è un’idea del tutto nuova. Henry Ford, quando progettò la leggendaria Modello T nel 1908, usò materiali derivati dal granturco e dal latte di soia.

Eco-pannolini (es. Wip Natura è): usano diversi tipi di biopolimeri in sostituzione delle materie prime sintetiche e cellulose provenienti da foreste coltivate certificate. Le fibre sono realizzate con biopolimeri estratti o derivati dalle sostanze contenute nell’amido di molti vegetali come cereali, patate, riso ecc. e in particolare dei polisaccaridi come il destrosio.

Il primo vantaggio delle bio-plastiche è l’uso di una risorsa rinnovabile come le piante, per di più con la possibilità di arrivare a un bilancio zero per quanto riguarda l’emissione di anidride carbonica. E con la possibilità di costi minori. Possibilità per ora solo teorica, dato che le plastiche di origine biologica costano più di quelle derivate dal petrolio. Ecco perché l’interesse verso di esse ha un andamento irregolare: fluttua con il prezzo del barile. Nel 2008, con il petrolio a 145 dollari, ci si buttarono in molti. Poi il prezzo del greggio scese, e con esso l’attenzione.

Marc Verbruggen, presidente della Natureworks LLC, la maggiore produttrice mondiale di bioplastiche, annunciando la creazione di un nuovo impianto di produzione in Asia ha dichiarato che i polimeri di origine biologica possono essere competitivi rispetto a quelli sintetici se il petrolio si assesta stabilmente a più di 80 dollari al barile.

Una delle bioplastiche più promettenti oggi è il poli-acido lattico. Lo si può ottenere a partire dallo zucchero di canna o dal glucosio. Non solo somiglia moltissimo come caratteristiche ai materiali sintetici più ampiamente usati come Pet, Pvc e polietilene, ma è completamente biodegradabile, e si distrugge in circa sei mesi. Inoltre può essere direttamente impiegato nei macchinari già usati per le plastiche derivate dal petrolio.

Alla fine del 2009 le bioplastiche rappresentavano una fetta minima del mercato dei polimeri: appena lo 0,4%. Ma le stime parlano di una crescita vertiginosa, fino ad arrivare, nel 2020, al 20%. E questo apre un grosso problema: quali risorse agricole dovranno essere impiegate per questa rivoluzione? Attingere al mais significherebbe intaccare un prodotto che può essere usato per l’alimentazione, e non si possono escludere vere e proprie crisi alimentari derivate dal suo sfruttamento per l’industria plastica.

Così i ricercatori stanno lavorando per ottenere gli stessi materiali da piante non commestibili. Come hanno fatto al Brookhaven National Laboratory, negli Stati Uniti. Qui, secondo un lavoro pubblicato sulla rivista Plant Physiology, sono riusciti a modificare geneticamente una pianta già molto usata dai laboratori di ricerca, la Arabidopsis thaliana, in modo che riuscisse ad accumulare una quantità molto alta di un particolare acido grasso: Omega-7, parente dei più noti Omega-3 oggi raccomandati per qualsiasi dieta. La molecola prodotta può facilmente diventare la base di partenza per creare materiali plastici, come il polietilene. Quindi un composto già molto usato, solo che questa volta non verrebbe dal petrolio e, soprattutto, sarebbe stato prodotto a partire da una pianta non destinata al consumo alimentare.

Il mercato comincia a vedere una diffusione sempre più capillare delle bioplastiche con prodotti finiti. Alcuni esempi: il tubetto biologico per dentifricio lanciato dall’azienda svedese FkuR; la bottiglia per l’acqua creata con un polimero derivato dal destrosio di un tipo di mais, in via di commercializzazione da parte della Green Planet Bottling; le bottigliette di Coca Cola che contengono il 30% di plastica derivata da zucchero di canna; la pellicola protettiva per celle solari derivata da cotone e semi di ricino, prodotta dalla californiana Biosolar, ecc.

Fujitsu, una delle prime società a usare bioplastiche per i suoi laptop.

Abbigliamento: gli scarponi in bioplastica di Atomic e Salomon, la giacca da golf di Calvin Klein.

Forse ricordando gli inizi della Modello T Ford, l’industria automobilistica sembra la più attiva nel cercare soluzioni alternative ai polimeri derivati dal petrolio. Molti modelli Ford e Lincoln montano sedili con imbottiture che, almeno parzialmente, contengono bioplastiche. Alla Toyota montano tappetini e rivestimenti in Pla sul modello Lexus HS 250h. In generale si punta agli interni (Mazda, per esempio), ma cruscotti e vernici stanno per subire l’impatto, mentre all’orizzonte si profilano applicazioni anche in aree più critiche come il motore.

Cereplast, produttore californiano di biopolimeri, ha lanciato un concorso (aperto solo a cittadini americani) per la realizzazione di un logo per questo tipo di plastiche. Nella giuria anche Gary Anderson, inventore dell’ormai universale simbolo del riciclaggio con le tre frecce curve l’una sull’altra. Premio: 25.000 dollari.

Ma le bioplastiche sono veramente “verdi”? L’Università di Pittsburgh le ha messe alla prova contro le plastiche derivate dal petrolio, con risultati incerti. Ciò che i ricercatori americani hanno fatto è considerare l’intero ciclo di vita dei prodotti, dalla produzione al riciclaggio o alla distruzione. I biopolimeri si sono dimostrati subito carenti nella fase produttiva. I fertilizzanti e pesticidi usati per far crescere le piante, l’uso intensivo della terra coltivabile e, successivamente, i procedimenti di trasformazione che consumano molta energia sono tutti elementi negativi. Ma hanno recuperato terreno nel ciclo di vita dei prodotti, quando bisogna mettere in conto la loro permanenza nell’ambiente dopo che sono stati usati.

Le bioplastiche più promettenti sono sì biodegradabili, ma a certe condizioni. Alcune, come ad esempio il Pla, devono essere nel bidone per formare compost. Non possono rimanere all’aria come normali rifiuti. Altre, come il Pha, possono decomporsi all’aria. Ma se finiscono nella normale spazzatura, quindi sottoterra, non possono usare l’ossigeno e seguono un percorso chimico diverso, producendo molto metano, gas responsabile di un forte effetto serra. Il vantaggio con il Pha è che non si vedrebbero più in giro forchette e piatti di plastica abbandonati nei prati: grazie al contatto con l’aria aperta scomparirebbero in pochi mesi. Ma in un ambiente più concreto gli scettici vedono un incubo di plastiche diverse: riciclabili, biodegradabili come compost, biodegradabili in aria. Improbabile sistemare bidoni di raccolta differenziata per ciascuna di esse.

Le nuove borse della spesa bio: le più comuni sono in Mater-Bi, la linea di biopolimeri della Novamont, pioniera italiana delle bioplastiche. La bioraffineria di Novamont sforna 80mila tonnellate di bioplastiche all’anno, derivate dal mais e da olii vegetali, che vanno a finire nei prodotti più disparati, dai pneumatici Goodyear ai bicchierini per il caffè.