Gilberto Oneto, Libero 9/3/2011, 9 marzo 2011
L’UNITA’ A COLPI DI PLEBISCITI TRUCCATI
L’unificazione d’Italia è avvenuta nell’indifferenza - quando non nell’aperta opposizione - delle classi popolari; ciò nonostante si è fatta passare l’idea che tutto fosse stato fatto «in nome del popolo» e, per portare all’estremo l’inganno, si è cercato il suggello dei Plebisciti, intesi come ufficializzazione del consenso popolare. Ai primi del ‘900, mostrando un eccesso di indulgenza patriottica, lo storico Francesco Lemmi ha scritto che i Plebisciti «in sostanza possono considerarsi come un’innocua convenuta finzione destinata a salvare il principio della sovranità popolare». In realtà si è trattato di molto peggio di un simulacro di riconoscimento del volere della gente per legittimare una serie di azioni politiche fatte senza o contro il popolo, molto di più di una presa d’atto: è il suggello fondante di tutto il processo di unificazione, il certificato di nascita di uno Stato. L’Italia unita, come ha giustamente osservato Giuseppe Ferrari, non è infatti nata da una Convenzione o da un Congresso costituente - come per esempio gli Stati Uniti o la Francia moderna - ma dai Plebisciti (con la P maiuscola). La loro funzione essenziale è stata sostenuta a lungo (non c’è città importante che non abbia la sua via o piazza a essi intitolata, o la sua lapide commemorativa) fino a che è stato possibile celarne la scorrettezza all’opinione pubblica. E da allora sono un po’ scomparsi dalle narrazioni patriottiche: in occasione del 150° essi non sono ricordati neppure nelle celebrazioni più retoriche. Questo succede perché non è più possibile nascondere che si sia trattato di operazioni truffaldine, di una ignobile messinscena, degna dei peggiori regimi sudamericani. La prova generale della gigantesca farsa è avvenuta in Lombardia nel 1848: la “fusione” col Piemonte è avvenuta con numeri bulgari: 661.626 contro 681 (una percentuale del 999 per mille). Anche in termini probabilistici, i dati sono illuminanti sul vero svolgimento dell’operazione. Tutti gli altri Plebisciti di annessione hanno seguito la stessa sorte: Ducati emiliani e Romagna 426.006 “sì” contro 756 “no” (998 per mille), Toscana 366.571 contro 14.925 (961), Marche 133.765 contro 1.212 (991), Umbria 97.040 contro 268 (997), Regno di Napoli 1.302.064 contro 10.302 (992), Sicilia 432.053 contro 709 (998), Veneto 641.758 contro 69 (999,9, un record!), Roma 133.681 contro 1.507 (989 per mille). Come queste percentuali siano state ottenute è ormai noto: brogli, violenze, finzioni, pressioni, episodi vergognosi che non vengono riportati sui libri di scuola. Bisogna cercare fra le memorie che non hanno mai superato il muro omertoso della “ufficialità”, fra i documenti di testimoni oculari, da Cesare Cantù a Giacinto De Sivo, addirittura di osservatori stranieri di una (Patrick O’Clery) o dell’altra parte (George Mundy), riprendere gli scritti di Cattaneo (che di fronte alla farsa del voto sulla “fu - sione” aveva gridato la sua preferenza per il ritorno degli austriaci) o rifarsi a documenti letterari come Il Gattopardo. Il resoconto più organico è però quello di Filippo Curletti, l’agente incaricato da Cavour di organizzare le annessioni e i Plebisciti emiliani e toscani, che anni dopo ha messo nero su bianco tutti i dettagli scabrosi delle operazioni di voto. Le cronache dei testimoni sono agghiaccianti: traffico di liste elettorali, censure o interdizioni degli oppositori, voto palese, due urne separate, schede di colore diverso per il “Sì” e per il “No”, seggi presidiati dall’esercito e da torme di patrioti vocianti, violenze di ogni genere, minacce, percosse e anche qualche morto, sostituzione e falsificazione delle schede, voti multipli per gli amici, partecipazione di torme di patrioti foresti, infine la palese falsificazione dei verbali di voto. Una colossale e vergognosa truffa, insomma, che spiega la sospetta unanimità dei numeri. Una vicenda che dovrebbe togliere alla Bulgaria la triste nomea di patria del broglio di regime che è rimasta consegnata al linguaggio comune. Per dare l’apparenza della massima democraticità i Plebisciti si sono svolti sulla base del suffragio universale maschile senza altra restrizione che il limite di età. È la prima volta che si fanno votare tutti i cittadini, ma è anche la sola: subito dopo si torna al suffragio limitato. È sintomatico che si faccia finta di chiedere l’opinione di tutti per una scelta che è abbondantemente pilotata come quella delle annessioni, e che si limiti il potere reale di decisioni politiche concrete (come l’elezione dei rappresentanti in Parlamento) solo a una infima minoranza di gente “fidata”. Insomma, il popolo viene buono solo come comparsa per le grandi sceneggiate. Le elezioni del 27 gennaio 1861 del primo Parlamento rappresentativo di tutte le regioni annesse si svolgono infatti con le modalità previste dalla legge elettorale piemontese del 1848, basata sul censo: hanno diritto al voto 418.696 persone, pari all’1,9% della popolazione. Possono votare gli uomini che abbiano compiuto 25 anni, che sappiano leggere e scrivere, e che paghino almeno 40 lire di imposte. I votanti effettivi sono in realtà 239.583, pari al 57% degli aventi diritto e cioè circa l’1% della popolazione. Alla fine i voti validi si riducono a 170.567. Ha ragione Massimo D’Azeglio a dire che «questa Camera rappresenta il Paese reale come io rappresento il Gran Sultano turco!». Qualcosa cambia solo con la “Riforma Zanardelli” del settembre 1882, con la quale la base elettorale è allargata a 2.017.829 cittadini, il 6,9% del totale. Il suffragio universale maschile è introdotto da Giovanni Giolitti nel 1912, mezzo secolo dopo l’unificazione. Solo nel 1946 possono votare anche le donne. Serve ricordare che nel 1848 vigeva nel Granducato di Toscana il suffragio maschile e femminile: una libertà politica che, sia pur limitata dal censo, era unica al mondo. In buona sostanza, se i Plebisciti sono stato il suggello giuridico e “democratico” del processo unitario, questo risulta viziato da un autentico falso, da una vergognosa messinscena. Su cui è stato meglio calare un imbarazzato silenzio. Oltre alla coda di paglia circa la loro correttezza, c’è però un’altra ragione perché dei Plebisciti oggi si parla poco. Se l’unità è stata legittimata da un voto popolare, essa può essere teoricamente sciolta allo stesso modo. Ovvero, se la maggioranza dei cittadini di una parte di territorio (anche i Plebisciti si sono svolti su base regionale) decidesse di separarsi dallo Stato, dovrebbe essere libera di farlo, per l’inalienabile diritto all’autodeterminazione sancita dalla legge naturale e dai documenti internazionali, ma anche e soprattutto - nel caso specifico - perché il contratto di unione è stato legittimato da un voto. Se un Plebiscito vale per entrare, esso deve valere anche per uscire. Come è successo a Nizza e Savoia (con voti taroccati) o, nel 1947, a Briga e Tenda. Ma è un principio di cui non si deve parlare, è una musica che tanti patrioti italiani non amano sentire suonare.