GABRIELE BECCARIA, La Stampa 9/3/2011, 9 marzo 2011
“I 4
cervelli che crearono lo scienziato moderno” - Nel bene e nel male la scienza di oggi è figlia loro, di quattro amici inglesi con il cervello sviluppato e le idee coraggiose. Quando il 24 giugno 1833 si incontrarono a Cambridge, al meeting della «British association for the advancement of science», lanciarono l’ultimatum: non era più accettabile condurre ricerche nell’indifferenza, leggendole al sonnolento pubblico della Royal Society senza possibilità di discussione, e tanto meno era concepibile che chi faceva ricerche serie non vedesse mai un quattrino, tranne che in pochi casi fortunati. E ancora più scandalosa era l’inesistenza della laurea in scienze naturali. Sembrava che il vecchio mondo della magia si avvinghiasse a quello nuovo della scienza, soffocandolo. Era sbocciato il terzo decennio del XIX secolo, eppure la lezione di due secoli prima di Francesco Bacone - salvare l’umanità con le conoscenze scaturite dal metodo empirico - restava una promessa balbettante.
Ora si doveva cambiare tutto e uno dei quattro amici, William Whewell, coniò lì per lì una parola che sintetizzasse la rivoluzione necessaria: «scienziato». Se c’erano gli artisti - spiegò - ci dovevano essere anche i professionisti che si dedicassero a tempo pieno all’avventura della conoscenza dell’uomo, del Pianeta e dell’Universo. Il termine si rivelò meravigliosamente azzeccato e ancora di più l’idea che l’aveva generato. «Dagli Anni 20 ai 70 dell’Ottocento - cioè da quando i quattro si proposero di trasformare la scienza a quando morirono - venne alla ribalta una serie impressionante di conquiste scientifiche. Fu l’epoca dell’invenzione della fotografia, del computer, dei dispositivi elettrici, della locomotiva a vapore e del sistema ferroviario. Nacquero le scienze statistiche e sociali e la scienza della Terra, l’economia matematica e le moderne “teorie del tutto” in fisica», scrive Laura J. Snyder, riportando alla luce la storia dimenticata di Whewell, Charles Babbage, John Herschel e Richard Jones nel saggio «Il club dei filosofi che volevano cambiare il mondo». Professoressa, lei svela che la scintilla è stato il «Philosophical Breakfast Club», inventato dai quattro amici come luogo d’incontro domenicale: lo studioso di maree, il genio della matematica che progettò il primo calcolatore, l’astronomo che mappò le stelle dell’emisfero Sud e gettò le basi della fotografia e il pioniere che reinventò l’economia. Al contrario la celebrata Royal Society era un fossile corrotto: che cos’era successo? «All’inizio dell’Ottocento la Royal Society era davvero moribonda: non funzionava, i soci non venivano coinvolti e non si disseminavano come necessario i risultati delle ricerche. In poche parole aveva perso il ruolo per cui l’avevano immaginata i creatori. Si era formato un vuoto ed è quello che i nostri quattro scienziati hanno tentato di riempire». Chi è stato il più grande? Nel suo saggio giganteggia Whewell, che, tra l’altro ispirò molti colleghi, a cominciare da un certo Charles Darwin, con un’opera del 1837 intitolata «History of the Inductive Sciences». «Ho scoperto che la scintilla non è nata dallo sforzo di un singolo, ma dall’amicizia di un gruppetto, i quattro, appunto. Sono stati il motore che ha generato il cambiamento nel mondo della scienza: hanno vissuto esistenze interconnesse e ciascuno è stato coinvolto nella vita personale e professionale degli altri in un rapporto di reciproco aiuto e di affetto. Whewell ha inventato l’idea della grande scienza come impresa collettiva, Herschel ha diffuso i concetti del moderno metodo scientifico con “A preliminary discourse on the study of natural philosophy” del 1831, Babbage ha gettato le basi del calcolo elettronico, disseminando il principio che ogni ricerca ha senso solo se basata su calcoli accurati, e Jones è stato cruciale nello stabilire un ponte tra discipline fisiche e sociali». Furono dei grandi, ma con inevitabili contraddizioni: Whewell, per esempio, rimase così colpito da Darwin durante un incontro della Philosophical Society di Cambridge, nel 1837, da invitarlo a diventare segretario della Geological Society. E tuttavia, 22 anni dopo, quando uscì l’«Origine delle Specie», l’evoluzionismo lo lasciò freddo: non accettò mai che l’uomo derivasse dalla scimmia. «In effetti non disse mai di credere nell’evoluzionismo e in privato sostenne che non fosse efficace nello spiegare la nostra origine. E tuttavia - e questo è il punto che trovo interessante - non arrivò mai a criticare Darwin pubblicamente, mentre anni prima, nel 1844, si era scagliato contro il bestseller eterodosso di Robert Chambers “Vestiges of the natural history of creation”, in cui si annunciava l’intuizione della “trasmutazione delle specie”. Confessava che Darwin avesse raccolto così tante prove da dover essere comunque preso molto sul serio». A proposito di luci e ombre, Whewell e i suoi amici cercarono di conciliare ciò che oggi appare inconciliabile, e cioè scienza ed religione, ma non ci riuscirono come avrebbero voluto. «Erano convinti che una verità non possa mai confliggere con l’altra: seguendo la tradizione della teologia naturale del XIX secolo, ritenevano quindi che il mondo fisico sia dopo la Bibbia il secondo “Libro di Dio”: per capire il Tutto devono essere letti entrambi. Se poi una teoria scientifica, elaborata secondo il metodo induttivo e testata con le necessarie prove sperimentali, sembrava in contraddizione con la religione, allora - sosteneva Whewell - a essere sbagliata non era la Bibbia, ma una sua specifica interpretazione». In questo caso la storia non è andata come pensavano. «Hanno aperto una porta, contribuendo a recidere il rapporto scienza-religione. Ribaltarono le priorità, spingendo l’una a discapito dell’altra, ma, di certo, il processo è andato oltre le loro attese: hanno scatenato una rivoluzione impossibile da fermare. Mi chiedo che cosa avrebbero pensato di tutto ciò che è venuto dopo: Whewell sarebbe rimasto sconcertato dall’ateismo dichiarato della stragrande maggioranza degli scienziati del XX e del XXI secolo». E, allora, se ritornassero per un giorno nel mondo di oggi, come reagirebbero? Che cosa promuoverebbero e che cosa boccerebbero? «Sarebbero piacevolmente sorpresi dal livello di cooperazione internazionale testimoniato da imprese come il Cern di Ginevra e la Stazione Spaziale e sarebbero felici nel constatare che molte nazioni hanno creato agenzie per finanziare gli scienziati. Sarebbero meno felici - come dicevo - nel constatare i dissidi con la religione e sarebbero delusi dalla scarsa enfasi, a loro cara, sull’utilizzo della ricerca per migliorare il benessere dell’umanità. Era un principio baconiano che spiega anche perché dimostrassero tanto interesse per l’economia e il suo potere di generare i cambiamenti sociali». Lei conclude il libro con un ulteriore rimpianto: la ferita mai rimarginata tra scienza e umanesimo. «I quattro l’avrebbero sicuramente notata, dispiacendosene. D’altra parte, fu Herschel a prevederla con la maggiore lucidità: una volta trasformata in attività professionale, la scienza avrebbe imboccato una strada propria, allontanandosi dall’idea complessiva di cultura».