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 2011  marzo 08 Martedì calendario

LA MAPPA DELLE SCORTE. MA TENERE IL PETROLIO AL SICURO FA SALIRE I PREZZI

Siamo ancora ben lontani dagli effetti della Rivoluzione iraniana del 1979. Allora svanirono 5,6 milioni di barili al giorno, più di metà di quanti ne consumano gli Stati Uniti. Ora, con la crisi libica, ne mancano all’appello un milione al giorno, ha stimato ieri il cane da guardia dei Paesi Ocse, l’Agenzia internazionale dell’energia. «Non è ancora il momento di un’azione concertata sulle scorte» , hanno aggiunto dalla sede di Parigi. Già, le scorte. Ce ne sono, nei Paesi che aderiscono all’Iea, per 4,2 miliardi di barili, tra petrolio greggio e prodotti finiti come gasolio e benzina. Utilizzando solo quelle nella disponibilità diretta dei governi («public stocks» ) sarebbero a disposizione, dalla sera alla mattina, due milioni di barili al giorno per due anni, o quattro per dodici mesi. Un polmone per l’Occidente il cui utilizzo, tuttavia, non può essere né scontato, né gratuito. Il solo annuncio di ricorso alle scorte da parte dei Paesi occidentali, ad esempio, potrebbe avrebbe l’effetto opposto rispetto a quello atteso. Ovvero gettare nel panico l’intero mercato. Non è un caso che finora siano state solo due le occasioni per pescare negli stock: la guerra del Golfo nel ’ 91 e l’uragano Katrina nel 2005. Quella delle scorte non è neppure una carta che si possa tenere in mano del tutto gratis: il governo degli Stati Uniti, ad esempio, ha in carico le proprie «Strategic Petroleum Reserves» — 727 milioni di barili di greggio «leggero» — a un prezzo medio di 30 dollari al barile. In tutto fa 21 miliardi di dollari, senza tenere conto, poi, degli altri prodotti petroliferi e delle riserve private. Per quel greggio Washington ha stanziato negli ultimi due anni fiscali circa 230 milioni di dollari (l’anno) per acquisti, gestione e allargamento dei siti che lo contengono. Due sono in Texas e due in Louisiana, mentre altre riserve di olio combustibile sono sparse nella costa est tra New Jersey, Connecticut e Rhode Island. Altri Paesi, come la Germania, hanno scelto una strada un po’ diversa. La Repubblica federale, nel 1978, ha costituito un’agenzia apposita— l’ErdölBevG (Ebv) — che ha proprio il compito di custodire e gestire i 90 giorni di scorte obbligatorie imposti da Iea ed Ue. Tutte le compagnie che operano in Germania o importano prodotti petroliferi ne sono membri obbligatori e la finanziano. E mentre benzina e gasolio sono stoccati in depositi di superficie, il petrolio è gelosamente custodito in 58 «caverne» sotterranee, sparse tra Wilhelmshaven, Brema, lo Schleswig-Holstein e Sottort, nei pressi di Amburgo. E l’Italia? Anche l’Italia, nel 1998, aveva deciso la costituzione di un’ «Agenzia nazionale delle scorte di riserva» , un atto che pare essere disperso nei corridoi dei ministeri e che potrebbe tornare d’attualità prima della fine dell’anno. Da noi l’obbligo di tenere in carico i 90 giorni obbligatori è in capo alle aziende, sostanzialmente ai maggiori raffinatori, anche se sono circa un centinaio i soggetti coinvolti, ognuno in misura proporzionale a quanto vende sul mercato. Geograficamente, insomma, i depositi vanno da Udine e Aosta fino a Priolo e Catania. Secondo gli ultimi dati Iea, tra scorte e giacenze si tratta di circa 125 milioni di barili. E all’incirca il 10%deve essere ripartito tra piccoli stoccaggi, diffusi sul territorio e più facilmente disponibili in caso di emergenza. I costi? Ovviamente sostenuti dalle compagnie petrolifere, e poi riversati sui prezzi praticati a grossisti e consumatori. Con un’incidenza che, nei Paesi Ue dove le scorte sono sostenute da un organismo statale, è calcolata in circa 5 millesimi di euro per litro di carburante.