Marco Ferrante, Il Sole 24 ore 8/3/2011, 8 marzo 2011
LO SVILUPPO DEL SUD, DAL GATTOPARDO AL GRANDE FRATELLO
Una frase rivelatrice a fine serata in un ristorante: «Ci siamo divertiti – dice uno dei ragazzi – e ci siamo sentiti studiati». Strano, si viene fin qui sotto il Pollino in una zona quasi intatta della Basilicata, per verificare quel che resta dell’origine di una teoria politica e sociologica, per cercare un legame tra sfiducia nella cooperazione sociale che qui si respira e il nostro carattere nazionale, e si finisce per ritrovarsi in un flusso di autocoscienza antropologica, di disponibilità al reality etnografico e alla vivisezione sociale che per la gente del posto è un abito: contenti di essere osservati, grazie.
Chiaromonte sta su un cucuzzolo di 800 metri. Quando è bel tempo si vede il mar Jonio. Ha circa duemila residenti, solo 300 nelle vecchie strade del centro storico. Tra i vicoli in alto, molto silenzio. Interrotto da un «buongiorno», o dalla tosse di una donna anziana dietro la porta di una casetta medievale. Sarebbe rimasto un millenario borgo perduto, se nel 1955 non fosse arrivato un politologo americano, Edward C. Banfield, con l’obiettivo di studiare una piccola comunità arretrata nel Mezzogiorno. Visse qui qualche mese. Intervistò la popolazione ed elaborò una tesi: il familismo amorale è il principio che regola i rapporti tra famiglie nucleari, incapaci di cooperare e di fare scelte oltre l’interesse di brevissimo periodo. Il familismo amorale descritto da Banfield impedisce la crescita della comunità, il perseguimento dell’interesse generale, riduce il controllo sui pubblici ufficiali, riduce organizzazioni spontanee e altruismo, erode la fiducia tra gli individui (base di qualunque forma di sviluppo economico), mina il valore della legge come garanzia collettiva, spinge i deboli a tifare per il mantenimento dell’ordine con le maniere forti, induce chi ricopre cariche pubbliche a sfruttarle a proprio vantaggio contro gli altri; in una società di familisti amorali non ci sono leader, né gregari, non c’è iniziativa, principi né ideologia, non ci sono aspettative nella politica, non ci sono classi dirigenti, ma solo famiglie ristrette.
Il libro fu pubblicato con il titolo «Le basi morali di una società arretrata». Il familismo amorale diventò una teoria fortunata negli studi politici e sociologici occidentali, e servì a definire il Mezzogiorno d’Italia. L’assenza di cooperazione e fiducia come origine del sottosviluppo. Con gli anni, il familismo amorale diventò un sinonimo di italianità, rilanciato in questa stagione di crisi dal deficit di concorrenza, merito, mobilità sociale eccetera.
Nel libro Chiaromonte si chiama Montegrano. Da cinquant’anni ricercatori, giornalisti, sociologi vengono a vedere com’è diventato il paese di Banfield. Quest’anno è già venuto il Manifesto e si appresta ad arrivare Rai Storia. C’è un elemento di morbosità antropologica nella nostra curiosità.
Il ritratto di Banfield fu impietoso e pessimista. Per i chiaromontesi fu seccante. Qualche anno dopo la ricerca, uno scrittore locale, ricevendo un’assistente del professore la portò a Teana, paese vicino dove c’erano ancora gli asini che dormivano in casa con le famiglie e le disse: perché non Teana? Chiaromonte aveva caratteristiche di medietà. Era arretrato, ma diviso in classi, c’erano dei piccoli proprietari, una famiglia aristocratica – i baroni di Giura – e un’economia terziaria, da piccolo centro amministrativo.
Un uomo intelligente, Nicola Cicale, insegnante in un istituto professionale a Trabutola, pensa che forse la tesi di Banfield era precostituita, «però in fondo aveva ragione, ancora oggi la famiglia è solo quella stretta, e qualunque iniziativa che viene dalla società è salutata da un classico: armiamoci e partite».
In apparenza tutto è irriconoscibile rispetto ad allora. Solo un quarto degli occupati lavora in agricoltura, il 30% dipendenti pubblici, il resto commercio e costruzioni. I redditi sono cresciuti. Una famiglia di quattro persone con 1200 euro al mese vive tranquillamente, con 2000 è quasi benestante.
Seconda questione, la mobilità: non è più il paese il perimetro dell’azione, ma la valle. I comuni da due, tremila abitanti cercano di consorziarsi per ridurre le spese – il federalismo incombe. I ragazzi vanno in giro la sera, a Sinise o a Valsinni. Terzo, le tlc: c’è la tv, i telefonini, internet e i social network, Facebook.
È un’arretratezza diversa, è solo provincia meridionale ormai. Con tutto un carico di letteratura: Percoco, eclettico studioso locale in cui i compaesani vedono «un pozzo di scienza» e in cui c’è un po’ del derobertiano don Cono Canalà («non concordo con le osservazioni preliminari del quinto capitolo di Banfield, ipotesi predittiva, capisce... predittiva...»); la giovane farmacista gentile, bionda e sorridente, genere bambola tv; una fatale signora Grandinetti dell’omonima sartoria, diamantino al naso, vestita un po’ da città, con l’aria con cui in un romanzo ottocentesco si sarebbe detto "è stata a Parigi"; c’è un dongiovanni versatile, contemporaneamente titolare di impresa di pompe funebri, di emporio nella piazza principale, un po’ coltivatore diretto e anche presidente regionale del soccorso alpino, Rosario Amendolara, bel ragazzo alla conquista di qualcosa e con la bandiera del Regno delle Due Sicilie appesa alla finestra di casa.
C’è un sindaco già senatore socialista, attualmente Udc, Antonio Vozzi, mestiere assicuratore, molto pater familias e quindi voluto bene. I di Giura vengono sempre meno. Tipica malinconia agraria meridionale, la loro casa è aperta tutto l’anno. Nella torre che la chiude verso ovest si raccolgono cimeli e cineserie del chiaromontese più illustre, Ludovico Nicola di Giura, ufficiale medico italiano che prestò servizio alla corte imperiale di Pechino. Su tutto, un’immanente aria da zia Leonie, nelle signore anziane che scrutano i passanti o nelle persiane chiuse dei palazzetti dalle ingenue pretese notabilari.
Il paese vecchio si svuota. La vita associativa diminuisce. Le partite non si vedono al bar perché tutti hanno Sky, le sezioni di partito non esistono quasi più. La tv domina la vita al chiuso. Non solo nelle case. All’hotel Ricciardi gli avventori mangiano con la tv accesa, mattina e sera.
Non c’è legame tra educazione televisiva e orientamenti politici. Ai ragazzi non piace Berlusconi (la Basilicata ha una tradizione di centrosinistra), ma molto il Grande Fratello. In amore, a sentire i boccacceschi racconti locali, la gioventù sembrerebbe abbastanza libertina («ma – nota Cicale – questo c’era anche prima, ma la società contadina imponeva più discrezione»).
Non c’è lavoro né imprenditoria, il turismo non decolla, tutto è legato al ricambio nei servizi e nei posti pubblici. Molti ragazzi se ne vanno. Ma adesso cominciano a pensare se non sia il caso di tornare, vivere a Bologna o a Milano con mille euro al mese non ha senso. L’agricoltura non è un affare, ma c’è sempre più gente che cerca di recuperare il rapporto con l’identità nella campagna. Tutti in casa hanno respirato cultura bracciantile.
All’orizzonte collettivo c’è la preoccupazione del futuro, non quello stagionale di cinquant’anni fa, legato al ciclo agricolo, ma un futuro esistenziale, un generale che sarà di noi. Nonostante le condizioni di vita migliorate, nel profondo una parte delle intuizioni di Banfield restano attuali. È ancora viva la sfiducia generale nella dimensione collettiva, nella cooperazione, nella coincidenza tra interesse personale e collettivo, nella modernità liberale.
«La politica è sempre uguale, promette e non fa», dice Lucio Vitale, trentun anni, corrispondente locale del Quotidiano della Basilicata. Dalla politica si aspettano qualcosa, ma sono sicuri che non arriverà. Questa diffidenza ha un effetto, spiega Amendolara: «La pigrizia. Quelli di noi che quando vanno fuori, si danno da fare e riescono, quando tornano, si lasciano risucchiare dalla mancanza di iniziativa».
Aspetto positivo, nella valle c’è pochissima malavita e non ci sono infiltrazioni mafiose. Perché? La sanità di fondo della gente, innanzitutto. Della eventuale relazione tra familismo amorale e assenza di criminalità, c’è chi dice che la famiglia è stata una protezione naturale dalle infiltrazioni (sebbene sia un incubatore di spirito negativo da clan) e c’è chi ribatte che questo dovrebbe valere per tutto il Mezzogiorno e che in realtà la valle si salva per un misto di ragioni, valori sociali, scarsa accessibilità, modesti flussi finanziari.
Quanto a Banfield, il risentimento nei suoi confronti si è attenuato, «Le basi morali di una società arretrata» è come un prodotto locale: qui è stato pensato il familismo amorale. In un certo senso, sono disposti ad affidare la loro identità alla celebrazione di un libro che parla male di loro. E nello stesso tempo a farsi scrutare come cinquant’anni fa.
«Già – dice un chiaromontese – è una forma di voyeurismo allo specchio. Quando arriva qualcuno ci concediamo e poi siamo curiosi di vedere che racconterà di noi, per sfida, e magari per capire qualcosa di più della nostra vita. È una seconda pelle». È come il set di un GF specializzato in fisica sociale. La Regione istituirà un osservatorio sociologico per ospitare studenti da tutto il mondo; e quando la signora dell’emporio viene a sapere che quel tale con l’orlo di pelliccia sul cappuccio è un giornalista, gli chiede amabile: «Siete venuto per Banfield, è vero?».