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 2011  marzo 08 Martedì calendario

Se le università sono pagate dai dittatori - Il fatto che i pesanti ta­gli ai fondi di dotazio­ne ordinaria conferiti dallo stato mettano in serie difficoltà econo­miche le università italiane è un segnale assai positivo cir­ca la loro condizione etica

Se le università sono pagate dai dittatori - Il fatto che i pesanti ta­gli ai fondi di dotazio­ne ordinaria conferiti dallo stato mettano in serie difficoltà econo­miche le università italiane è un segnale assai positivo cir­ca la loro condizione etica. Non è una battuta di cattivo gusto. Dal 2006 i governi bri­tannici non hanno fatto altro che tagliare i fondi pubblici delle università, eppure que­ste non hanno mostrato al­cun segno di difficoltà, al contrario. Difatti, secondo recenti stime, in una decina di anni su di esse sarebbero piovuti quasi 250 milioni di sterline tutti provenienti da governi dittatoriali, o quan­t­omeno assai poco democra­tici, del mondo islamico. Il fatto che mezza Europa, e diciamo pure mezzo Occi­dente, sia stato comprato da quei governi, è una voce che circola da tempo tra scrolla­te di spalle. La crisi libica sta rendendo più difficili le scrollate, ora che viene fuori che quasi tutte le principali imprese occidentali - Che­vron, Honeywell, Pfizer, Gla­xo, Shell, Vodafone, Alcatel, Bnp-Paribas, Unicredit, Sie­mens, e via elencando - han­no pesanti partecipazioni li­biche; figuriamoci quale sa­rà il panorama completo del­le partecipazioni di altri pae­si non propriamente demo­cratici. I condizionamenti politici ed economici deter­minati da tali partecipazioni sono materia da approfondi­re. Di certo, sarà sempre più difficile deridere come una fantasia da film di James Bond la formula «Eurabia» coniata da Bat Ye’or; caso­mai si tratterà di vedere se, tra non molto, bisognerà par­lare di «Usabia». Di certo, lo scandalo della London School of Economi­cs ( LSE), che rischia di esten­dersi ad altre università in­glesi, getta una luce sinistra sulle finalità di queste «dona­zioni » e sui condizionamen­ti ideologici e politici che es­se hanno prodotto. Non si tratta tanto del fatto che la ce­lebre LSE abbia regalato un diploma di dottorato per una tesi copiata a uno dei fi­gli di Gheddafi dopo la dona­zione di un milione e mezzo di sterline; e neppure soltan­to del fatto, ancor più grave, di aver accettato più di due milioni di sterline per forma­re 400 funzionari del regime libico. Si tratta di capire fino a che punto l’università ab­bia accettato quattrini da molti altri governi tirannici e corrotti, in considerazione di atti sospetti come l’intito­lazione di un teatro della LSE all’ex presidente degli Emirati arabi uniti. Da que­sto punto di vista, le dimissio­ni del direttore della LSE, Howard Davies, per la vicen­da del figlio di Gheddafi, po­trebbe essere un modo per concentrare l’attenzione su un episodio minore rispetto allo scandalo molto più va­sto di aver svenduto una par­te consistente del patrimo­nio universitario britannico a forze che predicano l’odio contro l’Occidente e in parti­colare contro Israele. Fino a che livello si siano spinti que­sta svendita e l’inquinamen­to ideologico è il punto da ve­­rificare. Di certo, quei quat­trini non sono stati regalati in cambio di niente, visto il proliferare di centri islamici dediti a campagne di odio e il fatto che le università ingle­si sono diventate i centri mondiali più attivi in quella oscena iniziativa che è il boi­cottaggio scientifico di Israe­le - qualcosa che non si è mai visto, neppure ai tempi dello stalinismo - quando, piutto­sto si sosteneva giustamente che l’intensificazione dei le­gami scientifici e culturali è uno dei mezzi più efficaci per esportare la democrazia. Oggi tutto il panorama an­drebbe esplorato a fondo per capire fino a che punto il fiume di denaro giunto dagli ambienti del fondamentali­smo islamico o dei regimi ti­rannici sia servito a creare centri di «studio», in partico­lare sul terzo mondo, sul­l’islam, sul Medio oriente, e sui «diritti umani», visti se­condo l’ottica di quel politi­camente corretto che ha tro­vato normale che la Commis­sione per il diritti umani del­l’Onu fosse egemonizzata da paesi come la Libia, il Su­dan e l’Iran. Oggi Gheddafi è diventato il reietto interna­zionale, ma ieri nessuno si scandalizzava per la presen­za libica in quella commis­sione e, ancor oggi, poche vo­ci in occidente si pronuncia­no sui delitti del regime ira­niano; mentre il nuovo mini­stro degli interni francese ha mostrato la sua carta da visi­ta intessendo le lodi della «moderazione» dei Fratelli Musulmani. È da anni che si constata che il sistema acca­demico britannico è la pun­ta di lancia di un politica­mente corretto suicida. Ora sappiamo che dietro quella ideologia diffusa e quelle campagne c’è stato un fiume di denaro e l’unica speranza è che la botola che si è scoper­chiata non venga richiusa. Oggi è il prestigio della LSE a essere crollato in modo drammatico e il confronto con i tempi in cui da essa uscirono 16 premi Nobel e personalità del livello di Karl Popper è impietoso. Sotto questo profilo conviene spendere qualche parola sul­la credibilità delle classifi­che internazionali che collo­cano le università inglesi nel­le prime posizioni a livello mondiale. Per esempio, nel­l’accreditato QS World Uni­versity Ranking del 2010, quattro università inglesi si trovano ai primi dieci posti e, sebbene la LSE figuri all’ot­tantesimo nella classifica ge­nerale, essa occupa il quarto posto, dopo Harvard, Oxford e Cambridge nella classifica delle università specializzate in scienze uma­ne e sociali. È una posizione assai poco credibile per un’università che regala al fi­glio di un dittatore un dotto­rato per una tesi copiata in cambio di denaro, si accon­cia ad addestrare funzionari di uno stato dittatoriale, mentre il suo direttore accet­ta l’incarico di consulente fi­nanziario di quel governo e un suo teatro viene intitola­to a un satrapo. In una recen­te intervista, l’ingegner Ro­ger Abravanel, fautore delle valutazioni «oggettive» e au­tore del progetto «merito e qualità» per il nostro ministe­ro dell’istruzione, ha affer­mato che le università israe­liane sono eccellenti, ma di essere molto «irritato» nei confronti degli israeliani «perché sono pessimi nel marketing», il che ha come conseguenza che le loro uni­versità non siano menziona­te fra le migliori del mondo. Singolare contraddizione. Se le valutazioni sono «ogget­tive » le università israeliane stanno bene dove stanno e nessun marketing dovrebbe influenzare la loro posizione in classifica. Se invece è una questione di marketing - ov­vero di sapersi vendere- allo­ra non c’è da stupirsi che, con l’antisionismo incircola­zione, le università israelia­ne siano svalutate e quelle in­glesi spicchino in vetta. Ma se è una questione di sapersi vendere - come sospettiamo e conferma la vicenda di LSE e delle università britanni­che- allora sono queste valu­tazioni «oggettive» che meri­tano di finire nel cestino del­la carta straccia.