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 2011  marzo 08 Martedì calendario

MA PER ORA VINCE IL RAISS

La Nato e gli Usa stanno considerando ogni opzione nei confronti della Libia, inclusa quella militare. O almeno, questo è quanto si dice ufficialmente.

In realtà l’inatteso ribaltarsi di quella che fino a pochi giorni fa si considerava una veloce rivoluzione in guerra civile scopre il bluff delle prime ore, e lascia dietro di sé la imbarazzante presa d’atto di una sostanziale impreparazione dei nostri governi. Mentre l’orologio scandisce il conto alla rovescia verso la riunione che giovedì 10 vedrà riuniti a Bruxelles i ministri degli Esteri della Nato, e mentre tutti ripetono di essere pronti, sul tavolo c’è una sola domanda: pronti a fare esattamente cosa? La resistenza del Colonnello coglie la comunità internazionale di sorpresa, e senza vere opzioni da spendere.

L’unica scelta finora adombrata, quella dell’intervento militare, si sta rarefacendo proprio nelle ore in cui più la si sta agitando. La giornata di ieri a Washington è stata in questo senso illuminante. Dal Senato la vecchia guardia si è fatta sentire per chiedere al presidente Obama prese di posizione più aggressive nei confronti del Colonnello. Due di queste voci le conosciamo bene.
Una è quella del senatore McCain, repubblicano, che ha chiesto di fermare gli aerei libici che bombardano i ribelli. L’altra è quella del senatore democratico John Kerry, che della commissione è anche il presidente, che ha chiesto di bombardare le piste degli aeroporti per impedire agli aerei del Colonnello di decollare.

La Casa Bianca, per bocca del capo dello staff William Daley, ha però fatto subito piazza pulita di queste intemperanze, facendo presente la difficoltà a mettere in atto una no fly zone su una nazione vasta come la Libia, armata di moderne difese antiaeree di fabbricazione russa. «Tanti parlano di no fly zone - ha detto Daley con un certo sprezzo - come se si trattasse di un videogame», frase che in giornata ha ripreso, e non a caso, il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini. Ugualmente sprezzante nei confronti di ogni ipotesi militare è stato l’uomo che, eventualmente, avrebbe nelle sue mani proprio la gestione di un intervento di tal genere, il segretario alla Difesa Robert Gates, definendole «chiacchiere». Un Paese vasto come l’Alaska, ha detto Gates, trovando la perfetta immagine per chiarire le dimensioni di una impresa armata, non può che iniziare con attacchi aerei e finire con una operazione di vaste proporzioni. Il termine va tradotto con «invasione di terra».

In ogni caso, e qualunque fossero i piani di guerra, non ci sarebbe mai un appoggio internazionale sufficiente a far approvare all’Onu un mandato. Mancano all’appello i membri chiave del Consiglio, come la Russia (ieri lo ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov) e la Cina, e mancano potenze regionali come il Brasile. Così come in Medioriente mancherebbe l’appoggio della Lega Araba che già si è schierata contro ogni intervento occidentale.

L’Italia, già riluttante nemica di Gheddafi, ha ancora meno dubbi sul che fare: «Mi pare di sentir parlare di interventi militari e credo che sarebbe un errore molto grave», ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Quello che rimane sul tavolo, dunque, sono le solite strade - un piano Marshall, che è la parola magica che si evoca quando non si sa cosa dire, oppure la via diplomatica dei contatti con l’opposizione, o ancora un massiccio invio di mezzi per aiutare la popolazione delle zone liberate o i profughi. Misure necessarie, ma tutte di contorno rispetto al problema che si è creato ormai in Libia: cioè che il colonnello Gheddafi non appare vicino, e forse nemmeno lontano, a cadere.

Giorno dopo giorno, i combattimenti stanno svelando la assoluta improvvisazione con cui i ribelli hanno avviato la loro rivolta. Ma se la buona fede con cui si sono avviati in una vicenda che oggi appare forse più grande delle loro forze è spiegabile con il contesto generale con cui si sono mossi, la sorpresa della resistenza messa in atto dal Colonnello parla anche della esilità delle nostre conoscenze dei rapporti di forza, della situazione sul terreno, e della struttura di potere nella Libia di Gheddafi.

Da quel che si riesce a capire da comunicati, da mezze frasi e da informazioni più o meno riservate, in queste ore gli Usa - e dobbiamo supporre anche noi europei - si stanno concentrando soprattutto nel recuperare tale ritardo. Il Washington Post cita fonti anonime della amministrazione che sostengono che Washington ha inviato osservatori alle frontiere libiche per fare un calcolo esatto dell’emergenza, e che la intelligence Usa - «ridiretta» ora sulla Libia - stia cercando di capire da chi è fatta e come è composta la opposizione. Un ritardo che da solo prova che, in fondo, non ci si aspettava che Gheddafi arrivasse fino a qui. Cioè fino al punto da obbligare a una rimessa a punto di strategia da parte degli occidentali. Forse questa messa a punto non è un ripensamento. Forse è solo la riflessione d’obbligo quando si arriva a un rialzo sulla strada e in cima si guarda al percorso fatto e a quello da fare. Ma, in ogni caso, qualunque ne sia la ragione, la perplessità sul cosa fare da parte di tutti i nostri governi è di sicuro già una parziale vittoria del Colonnello.