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 2011  marzo 06 Domenica calendario

Elisabetta va in Irlanda pietra tombale sui rancori - C’è un posto a Dublino che tiene dentro la memoria di tutti

Elisabetta va in Irlanda pietra tombale sui rancori - C’è un posto a Dublino che tiene dentro la memoria di tutti. È una prigione. O comunque lo è stata per oltre 125 anni. Si chiama Kilmainham Gaol. È una roccaforte al numero 8 di Inchicore road, che adesso è diventata un museo. Le sue mura si portano dentro due storie. La prima è quasi una storia buona. Comincia nel 1796. Gli irlandesi decidono che il sistema carcerario è inumano e allora lo riformano e consegnano i detenuti - spesso bambini costretti a rubare per fame - a questo castello dove le celle sono finalmente singole. Piccole, 28 metri quadrati, ma civili. La luce entra a fatica dalle sbarre e per dieci ore al giorno i prigionieri sono costretti a spaccare pietre, ma il cibo è decente. E sulle brande, di notte, si possono stendere le gambe. La seconda invece è cattiva, più importante, perché è fatta di rivoluzioni e di sangue, di Caino e di Abele. È una storia che si porta addosso l’odore pestilenziale e odioso delle guerre fratricide e sembrava non dovesse finire mai, anche se sulla carta è finita da un pezzo. Il 6 dicembre 1921, giorno della firma del Trattato anglo-irlandese. Gli inglesi se ne vanno. Dublino, legata alla Corona dal 1800, è indipendente. I capi della rivolta finivano tutti a Kilmainham Gaol. Spesso li ammazzavano. La prigione oggi è diventato un luogo di pellegrinaggio. Gli U2 hanno ambientato lì il video «A Celebration» e Jim Sheridan l’ha usata per girare «Nel nome del padre», il film con Daniel Day-Lewis sui quattro di Guilford. Dopo la pace, in ogni caso, ognuno nella sua terra. L’ultimo re inglese a mettere piede dall’altra parte è stato Giorgio V. Era il 1911 e per quanto ci fosse un po’ di mare di mezzo era ancora Gran Bretagna. Sono passati cento anni esatti, ma adesso, in maggio, sua nipote, la Regina Elisabetta, prova a mettere la pietra tombale sui rancori. Va in Irlanda in visita ufficiale. C’è voluto un anno per organizzare il viaggio, anche se tra i due Paesi i rapporti commerciali sono consolidati e il governo Cameron ha contribuito al salvataggio dei cugini dalla bancarotta con 3 miliardi di sterline. Un conto sono i soldi, un conto è l’onore. Tre mesi fa Boby McDonagh, ambasciatore irlandese a Londra, ha invitato Carlo nella sua residenza di Grosvenor Place. Il Principe di Galles si è lanciato in un discorso che anticipava l’abbraccio: «Dobbiamo essere protagonisti della nostra storia, non possiamo restarne prigionieri». Poi è successa anche una cosa più futile. William e Kate hanno invitato al loro matrimonio Brian O’Driscoll, capitano della squadra irlandese di rugby. Per la diplomazia è stato un messaggio inequivocabile. Ieri Buckingham Palace ha confermato la visita e il presidente ospite, Mary McAleese, ha sottolineato che il benvenuto sarà «caloroso». Ottimista. Gerry Adams, leader del Sinn Féin, che ha lasciato l’Irlanda del Nord per quella del Sud e la scorsa settimana si è fatto eleggere nel Dail conquistando il seggio di Louth, dice che questa visita è una follia e che le ferite sanguinano ancora. Non solo a Belfast. Anche a Dublino. «Rispetto la scelta del presidente McAleese, ma vorrei che fossero rispettate anche le nostre opinioni. E soprattutto il dolore di chi ha perso amici e parenti per colpa degli inglesi». Ha preso le lancette dell’orologio e le ha riportate al 1916. «Ricordate?». La sollevazione di Pasqua, quella guidata da Eamon de Valera, futuro presidente della Repubblica, e da Patrick Henry Pearse dal 24 al 30 aprile. Pearse viene nominato guida del governo provvisorio della Repubblica d’Irlanda. Dura poco. Gli inglesi riprendono il Paese con la forza e il neopresidente viene giustiziato il 3 maggio a Kilmainham. Joseph Plunkett, altro leader della rivolta, sarà fucilato il giorno dopo. Aveva 28 anni. La sua cella è incastrata in un braccio laterale. Uno spioncino, un materasso, le mura gelate. A poche decine di metri c’è la cella dove sarà rinchiusa la fidanzata. I due si sposeranno poche ore prima dell’esecuzione della condanna. Pochi passi, e si entra nella navata centrale del carcere. C’è una grande scala di metallo e nell’emiciclo si trova la cella della Contessa Costance Georgine Markiewicz. Non è un carcere, è un Pantheon. La Contessa è una donna bizzarra e testarda. Nata in Inghilterra, si unisce agli indipendentisti di Dublino. Alla prima riunione si presenta con la tiara. La insultano. Lei butta il gioiello: «Sono una di voi». Durante la rivolta del 1916 guida i soldati a St. Stephen Green. La arrestano e la condannano a morte. La grazia arriva prima del boia. Gli inglesi sono in imbarazzo. «Non possiamo giustiziare una donna». La guerra vera comincia nel gennaio del 1919 e finisce con la tregua dell’11 luglio del 1921. Le strade di Dublino si riempiono di morti, «il futuro è una nebbia serrata sul Liffey vuoto di barche», scrive W.B. Yeates. La città è in guerra e si devasta nell’acido lento di una stoltezza triste da presbiterio. L’episodio più doloroso il 21 novembre del 1920. Gli ausiliari inglesi, in un’azione di rappresaglia, entrano a Croke Park, il campo per il calcio gaelico di Dublino, e sparano sulla folla. Uccidono 14 persone e ne feriscono 65. Anche gli irlandesi fedeli alla Corona si schierano con l’esercito della nascente Repubblica. Si arriva alla tregua, il nuovo governo chiude la prigione e la trasforma in un museo. Tra le due nazioni cala il silenzio e per 90 anni nei pub i liquori hanno il sapore acido della vendetta. Il mondo va avanti, la memoria fa più fatica. Serve un gesto simbolico forte. Lo fa Buckingham Palace.