VITTORIO SERMONTI , la Repubblica 7/3/2011, 7 marzo 2011
IL GENIO DEL POETA OLTRE LA "COMMEDIA"
Alla vista di un libro di millenovecento pagine può affacciarsi una domanda, legittima anche se non proprio folgorante: «Ma questo da chi spera di farsi leggere? Su che target punta?»; domanda, cui ammicca la rispostina: «Be´, dipende». Nel caso in esame si tratta di un tomo sobriamente elegante, compattato da una legatura blu rifilata in oro, che consta - lo sfogli - di una vastissima introduzione generale in corsivo, tre introduzioni mirate, una cronologia, una ciclopica bibliografia, note, indici e tavole d´ogni natura, e di tre vecchi testi corredati da un tripudio di chiose in caratteri microscopici, genere «leggere attentamente questo foglio prima di assumere il medicinale». Il frontespizio fa: Dante Alighieri, Opere, volume primo: Rime, Vita Nova, De Vulgari Eloquentia. La pagina a fronte ci avverte il lettore che siamo al quarto di sei volumi dei Meridiani Mondadori, destinati a coprire tutta l´opera di Dante: i primi tre (rispettivamente Inferno, Purgatorio, Paradiso, con il commento di Anna Maria Chiavacci), usciti fra il 1991 e il 1997; gli ultimi due (Convivio, quinto; Epistole, Monarchia, Ecloghe, Questio ecc., sesto) in preparazione. La direzione dei tre volumi eccedenti la Commedia (dato il rilievo assoluto e l´instancabile genialità dei testi di Dante si capisce la rinuncia all´intestazione canonica "opere minori", per quanto a esser minori della Commedia non ci sarebbe da vergognarsi) figura affidata a Marco Santagata. Tanto per farsi un´idea dell´oggetto.
Ma visto che il crocchio dei dantisti di servizio e il manipolo di giovani volenterosi parauniversitari non sembrano, a occhio, commisurabili alla legione di quanti perseguono il piccolo scopo di riempire tutti gli scaffali sopra quel radiatore di termosifone con tutti i Meridiani Mondadori, andrà precisato che qui la domanda vuol riguardare solo quelli che questo libro lo leggeranno, anche se, magari, non tutto di fila.
Scopro le carte: il numero non riesco a immaginarmelo, ma più saranno ad abbandonarsi senza soggezione al godimento della lettura, meglio sarà: per loro, e anche per questo nostro paese a bagno in quest´epoca poveraccia.
Il libro, sia chiaro, emana una spaventosa erudizione, accanitamente abbarbicata alla storia, alle storie: storia della lingua, delle idee, delle istituzioni, della vita quotidiana degli esseri umani, con particolare riguardo per quella dell´autore. Ma tanta mole di notizie e riflessioni - e questo mi sembra ottima cosa - si sottrae alla tentazione che corre ogni storicismo troppo zelante: quella di stabilire le condizioni esterne e contestuali in forza delle quali un capolavoro non potrebbe essere altro che quello che ha finito per essere; quasi che da quelle condizioni lì quel capolavoro lì fosse irrevocabilmente deducibile. Tentazione inerziale e, nel caso della Commedia, singolarmente impraticabile, anche a circoscrivere la contestualità all´area di queste famose "opere minori".
In capo a una minuziosa ricognizione dei rapporti che sembrano intercorrere fra quelle e il poema sacro, leggiamo nell´introduzione generale: «Un buio impenetrabile (...) avvolge il momento di ideazione del poema e gli eventuali lavori preparatori. Da quella oscurità la Commedia sembra balzare fuori all´improvviso completamente formata nel progetto, dotata di uno strumento metrico (la terzina) mai prima sperimentato, ispirata a una poetica priva di precedenti, scritta in una lingua e in uno stile inusitati: (...) è come se Dante in pochi mesi avesse scoperto un altro mondo e, in maniera quasi istantanea, se ne fosse impadronito». In uno studioso della circospezione di Marco Santagata un´uscita del genere tradisce una magnifica onestà.
Un coriandolo del suo metodo investigativo: per indicare le "marche di eccezionalità" che designano l´iper-personaggio che Dante istituisce di sé in quanto perentoriamente contrassegnato dall´investitura profetica, Santagata spigola tre esempi. Il terzo insiste su due terzine del XIX dell´Inferno, famose per la pila di interpretazioni che ci si sono depositate sopra nei secoli e per la ruvida solennità che chiude la seconda terzina: «e questo sia suggel ch´ogn´omo sganni» (come dire: «Tanto, a scanso di equivoci, e il caso è chiuso»). Ricordiamo di che si tratta: a proposito dei fori tondi praticati nella bolgia terza, nei quali stanno incastrati a testa in giù i Simoniaci e sgambettano, Dante dice che gli sembravano quelli del Battistero di Firenze, fatti per loco d´i battezzatori: un foro dei quali lui aveva spaccato per salvare la vita a un che dentro v´annegava. Ma se i fori erano scavati nel marmo - ragiona Santagata spalleggiato da Mirko Tavoni - come avrebbe fatto Dante a spaccarne uno in quattro e quattr´otto? Già. Ma se correndo l´anno 1300, incluse nei famosi fori di marmo a contenere l´acqua lustrale c´erano, come pare proprio, anfore d´argilla, ecco che l´Alighieri poteva benissimo averne rotta una con le sue mani. Tutto qua? No: perché avendo Geremia, a rigor di Bibbia, frantumato un´anfora d´argilla davanti alla porta dei Cocci di Gerusalemme, per mostrare a cittadini dediti all´idolatria come il Dio che gli soffiava dentro avrebbe frantumato le mura della città e patrocinato la carneficina dei cittadini stessi, il gesto di Dante in Battistero, tirato in causa giusto nella bolgia dei Simoniaci (dati esplicitamente a fine canto per idolatre recidivi), sta a rivendicare per simbolo, sta a gridare per «figura» il suo status di profeta. Per dirne una su mille.
Infatti, come avverte Santagata, alla definizione dell´iper-personaggio Dante, contrassegnato da una eccezionalità radicale fin dai tempi del deliquio «paolino» che, a norma di Vita Nova, lo avrebbe folgorato «unenne» all´atto della nascita di Beatrice, concorre una costellazione di indizi che scoraggiano ogni pretesa di disegnare con esattezza i contorni dell´unicum che Dante crede e vuol farci credere di essere. Se fosse consentito assegnargli le prerogative geometriche che Alano da Lilla aggiudica al buon Dio, verrebbe da dire che Dante si affaccia protervo e abbagliante dentro la sua opera quasi fosse una sfera «il cui centro è dovunque, la cui circonferenza in nessun luogo». Certo è che l´eccezionalità che Dante esibisce di sé con una ostinazione sottolineata dalla reticenza è l´opposto della pretesa di esemplarità che amano accreditargli dantisti di scuola americana.
E nel constatare come la eccezionalità del personaggio si sovrapponga alla inimitabilità dello scrittore, mi torna in mente Mario Luzi che alla radio francese diceva qualcosa del genere: «Petrarca è il modello, Dante è la sorgente; i modelli si prestano ad essere imitati, le sorgenti no».
Ma allora, questa eccezionalità-inimitabilità di Dante, questo suo "elitismo ontologico" non è che ce lo renderà inaccessibile, inattuale?
Fermo restando che, grazie al cielo, rivendicare l´attualità di Dante non è fra le pretese di questo libro, ragionare come qui si ragiona che è impossibile avventurarsi nella sua cultura senza utilizzare tutte le risorse della nostra, ci intima l´idea che proprio per preservare Dante alla sua contemporaneità sarà bene rassegnarci alla nostra. E Claudio Giunta avvia la sua splendida introduzione alle Rime intimando al lettore che voglia accedere alla poesia (e alla poetica) di Dante lirico di liberarsi dalla nostra nozione di poesia, che la pretende «nel silenzioso ascolto di se stessi», in quanto rivolta «all´umana esperienza del lettore: una soggettività particolare che ne interpella un´altra». Le Rime di Dante, come e più deliberatamente di quelle dei suoi coevi, abitano un tempo dato, hanno dati destinatari, temi circoscritti (l´amore-coup de foudre, somatizzato in cefalea o addirittura in calvizie...), e la loro relativa incomprensibilità non collima col trobar clus dei tardi provenzali e tanto meno con gli ermetismi della poesia post-romantica, ma casomai con certi messaggi criptati di cui ignoriamo la password. Quanto alla rivoluzione formale che le cosiddette «Rime morali» attivano; come il loro allegorismo prefiguri quello della Commedia; come siano percorse da un ininterrotto tracciato narrativo governato da una ipocondria ad alto tasso simbolico e dalla centralità della Politica; come affidino le loro professa visionarietà alla sintassi del sogno: be´, questo e molto altro andrà commesso alla voluttuosa pazienza del lettore. Basterà segnalare come, definita l´esperienza dell´amore-caritas di Dante che mette «in gioco non solo la felicità individuale ma l´essenza stessa dell´uomo, il suo destino», l´autore postuli con energia l´idea che «il lettore odierno» riflettendo «su questi lontani antefatti (...) potrà tornare più consapevolmente all´oggi, perché riflettere serve a comprendere meglio non soltanto la vita spirituale di quell´epoca ma anche la natura dei sentimenti attuali e il modo in cui l´arte li rappresenta».
Ciò detto, cioè troppo e quasi niente, non ho spazio né, a dirla tutta, titoli sufficienti per recensire come merita il lavoro di Mirko Tavoni sul De Vulgari; e se è imperiosa la tentazione di fare scoop, spillando dal saggio introduttivo lo scrupoloso paradosso secondo cui Dante considera il latino in qualche modo discendere dall´italiano (dalle parlate italiane), o la notazione che il progetto linguistico elaborato nel trattato non prenderà corpo nella Commedia ma casomai nel Canzoniere del Petrarca, be´, non mi resta che vincerla, la tentazione. Tanto più che con queste cinquanta pagine la dantistica dovrà fare i conti per un bel pezzo.
Né ruberò tempo al lettore dicendo la mia sulla Vita Nova secondo Guglielmo Gorni, sull´ingegno del critico che riesce a far rabbrividire il testo che ausculta, sul coraggio intellettuale del filologo che cambia le carte in tavola a una tradizione testuale convalidata da studiosi di prestigio assoluto. D´altra parte, l´apparato di questa Vita Nova non si differenzia più di tanto dall´edizione Einaudi del 1997, e l´introduzione è limpidamente sobria. D´altra parte, Guglielmo, morto due mesi fa dopo un lunghissimo inferno, è anche il dedicatario di tutto il libro. D´altra parte, persone come lui, amici come lui, nella vita se ne incontrano pochi.
Ma la domanda iniziale è ancora inevasa, e la verosimile risposta gemma un´altra domanda: «Allora perché farlo, questo libro ingente?». Alla quale mi permetterò di rispondere con due versi di Antonio Machado: perché el hacer las cosas bien / importa más que el hacerlas. Far le cose bene è più importante che farle.