Pietro Piovani, Il Messaggero 6/3/2011, 6 marzo 2011
«IN QUEI LIBRETTI SURREALI L’ITALIA TROVAVA UN’IDENTITA’
LUCA SERIANNI, uno dei maggiori italianisti viventi, come studioso si è dedicato più volte ai libretti d’opera (per esempio in un saggio pubblicato nel 2002 da Garzanti all’interno del volume Viaggiatori, musicisti, poeti). È anche un appassionato ascoltatore di melodrammi: «Sono un verdiano, lo confesso. Ma sono anche molto sensibile a Donizetti, a Bellini. Meno a Puccini, che comunque ascolto sempre molto volentieri». È insomma la persona più adatta a spiegarci come mai quel linguaggio poetico, pur così distante dal nostro tempo, riesca ancora a fare presa sul pubblico.
Professor Serianni, come mai l’italiano ottocentesco dei libretti d’opera ci sembra più lontano dell’italiano trecentesco di Petrarca?
«Quei libretti condensano una serie di tratti tipici dell’italiano aulico, e quindi l’effetto di distanziamento è molto forte. Per esempio, i librettisti amavano adottare una tecnica che potremmo definire “fuga dalla realtà”. Come notava il critico letterario Luigi Baldacci, nell’opera i personaggi non parlano mai di “soldi”, concetto troppo prosaico: si preferisce dire “la borsa”. Il tempo non si misura con l’orologio, ma si guarda il cielo: per dire che sono passati tre mesi, Alfredo nella Traviata canta: “Volaron già tre lune”. Uno sforzo di allontanamento dalla realtà che tanto più colpisce se si pensa alla risonanza di pubblico che il melodramma aveva nell’Ottocento. Gli italiani di allora riuscivano a seguire un testo estremamente difficile, oltre che una trama estremamente intricata. Potenza del genere e della musica».
Ma al di là di un gusto poetico quantomeno dubbio, non andrebbe riconosciuto il valore drammaturgico di certi libretti? “La donna è mobile/ qual piuma al vento” non saranno due versi bellissimi, ma quando li sentiamo cantare dal Duca di Mantova fuori scena nel finale del Rigoletto diventano un colpo di teatro dalla potenza ineguagliabile.
«È quello che sosteneva lo stesso Giuseppe Verdi, quando in una lettera del 1856 scriveva la frase solo in apparenza ironica: “Io ho la debolezza di credere che il Rigoletto sia uno dei più bei libretti, salvo i versi, che vi siano”. In effetti è vero che questi libretti vanno valutati sulla base della funzionalità drammaturgica. La loro forza teatrale però è spesso, diciamo così, preterintenzionale».
In che senso?
«Farò alcuni esempi. Nell’Attila di Verdi il generale romano Ezio cerca di corrompere Attila con l’espressione “avrai tu l’universo/ resti l’Italia a me”. La frase è abbastanza goffa, l’offerta appare come un trucco in cui nessuno potrebbe mai cadere, e oltretutto mette in pessima luce la figura di Ezio, un maneggione pronto a tradire il suo imperatore. Però quando sentivano cantare “resti l’Italia a me” le platee dell’Ottocento si infiammavano, perché coglievano un’intenzione che andava al di là della situazione specifica. Allo stesso modo, nell’Ernani il coro “Si ridesti il leon di Castiglia” veniva automaticamente tradotto dal pubblico in chiave risorgimentale. O ancora, nella Giovanna d’Arco il coro iniziale che dice “Maledetti cui spinge rea voglia/ fuor dal cerchio che il nume ha segnato” era facilmente applicabile alla situazione italiana».
E ovviamente si potrebbe fare l’esempio degli ebrei che cantano “Va’ pensiero” nel Nabucco.
«Certo. Insomma le parole dei quei libretti hanno la capacità di essere interpretabili secondo l’intenzione che il pubblico vi trasferisce».
Anche perché per i contemporanei di Verdi erano immediatamente riconoscibili tanti riferimenti che a noi invece sfuggono, giusto? Un po’ come l’Inno di Mameli, il cui testo come ha ricordato Benigni per un uomo dell’Ottocento era molto più leggibile.
«Sì, forse per gli uomini colti dell’Ottocento, che però erano una infima minoranza. Gli altri coglievano l’intenzione. Dunque il problema non era se a essere schiava fosse Roma o la Vittoria, per citare la nota discussione su quel punto dell’Inno: ciò che contava, ieri come oggi, era l’intenzione comunicativa complessiva».
Non solo i librettisti, ma tutti i nostri poeti nell’Ottocento adottarono quel linguaggio arcaicizzante che oggi a noi suona così sgraziato. Secondo lei perché la poesia italiana prese quella strada?
«Più che altro direi che ha continuato a usare un linguaggio tradizionale. Lo stesso Leopardi, pur innovando molto dal punto di vista del significato poetico, non uscì dal cerchio di una serie di termini e immagini tratti dalla tradizione petrarchesca. Il coraggio di cambiare in modo radicale il linguaggio poetico arrivò solo verso la fine dell’Ottocento, sull’esempio in particolare dei francesi».
Ma il gusto latineggiante, la tendenza ad alterare il normale ordine delle parole (vietato dire “l’orrendo fuoco di quella pira”) non è proprio una caratteristica della poesia dell’Ottocento?
«No, quel gusto c’è sempre stato. Forse negli autori ottocenteschi lo notiamo di più perché stride con alcuni elementi di novità che invece cominciano a entrare in quei testi. Penso alla poesia Clarina di Giovanni Berchet, che parla di una “coccarda tricolore” e allude a fatti moderni come i moti risorgimentali del 1821, ma continua a usare un linguaggio aulico: “Sotto i pioppi della Dora/ dove l’onda è più romita...” Si usa un’ambientazione fluviale anziché fornire una normale indicazione geografica, perché il riferimento al fiume è nella tradizione, a partire da Petrarca: “... che i miei sospir sian quali/ spera ’l Tevero et l’Arno,/ et ’l Po, dove doglioso et grave or seggio”. Del resto Manzoni nel Cinque maggio parla del Manzanarre, sebbene in pochi sappiano davvero dove si trovi».
Lei ha osservato che, a dispetto della sua aulicità, l’italiano dell’opera ottocentesca ha lasciato tracce molto evidenti sulla lingua corrente.
«Nel linguaggio di oggi usiamo espressioni che in realtà sono citazioni del melodramma, anche se non ne abbiamo consapevolezza. Si pensi alla “bugia pietosa”, o a un altro modo di dire piuttosto comune come “croce e delizia”: vengono entrambi dalla Traviata».