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 2011  marzo 07 Lunedì calendario

QUANDO LA VOCE ANDO’ A TRIPOLI

Il 5 ottobre del 1911 appare su La Voce un editoriale a firma di Giovanni Amendola, s’intitola A Tripoli, l’articolo impegna la linea politica di quella che all’epoca è la più influente rivista culturale. Amendola non è ancora l’esponente di peso liberale ma un giovane intellettuale. «Il dado è tratto», scrive categorico, «nulla ci sarebbe più caro che il dover riconoscere d’aver sbagliato». Il riferimento è alla battaglia giornalistica portata avanti dai vociani che si erano strenuamente opposti all’impresa libica, giudicandola un inutile orpello. Il 29 settembre del 1911 da poco tornato al governo, Giovanni Giolitti dava inizio alle operazioni militari per la conquista di quella che proprio dalle colonne della Voce Gaetano Salvemini aveva definito «lo scatolone di sabbia».
L’illusione tripolina, era stato il titolo di un numero dedicato alla prospettiva dell’invasione della Libia, «una grande illusione» secondo le parole di Amendola. E Croce abbandonando per una volta lo stile del grande filosofo aveva scritto che «Il nazionalismo è una manifestazione terziaria della sifilide dannunziana».
Per Amendola, Croce, Papini, Prezzolini e Salvemini, che avevano argomentato l’opposizione all’impresa libica, più che inseguire avventure estetizzanti e un colonialismo fuori tempo, l’Italia avrebbe dovuto concentrarsi su un nazionalismo interno che significava fare strade al Sud, acquedotti, scuole pubbliche, ferrovie.
L’impresa coloniale in Libia era una questione che aveva tenuto banco almeno tre anni nella politica italiana, nel 1908 nel giornalismo italiano era stata coniata la formula dell’«andar a Tripoli», a spingere per l’azione erano soprattutto i circoli nazionalisti facenti capo a Enrico Corradini che nel 1910 si erano costituiti in partito politico. L’impresa libica attira addirittura le attenzioni del Corriere di Albertini, mentre i giornali giolittiani, La Tribuna e La Stampa, pur non prendendo posizione tengono in ben conto le richieste dei nazionalisti. Una voce insospettata, quella di Giovanni Pascoli, si era unita ai favorevoli alla guerra, scriverà la «grande proletaria si è mossa».
I vociani, invece, sono l’unico gruppo intellettuale che si oppone all’«andar a Tripoli», non è un’opposizione anticolonialista, umanitaria, Prezzolini precisa la distanza dal pacifismo internazionalista, non vuole essere confuso con i socialisti. Le loro ragioni sono strettamente legate a opportunità e valutazioni economiche. Per i nazionalisti la Cirenaica è un Eldorado, capace di assicurare ricchezze e lavoro; Salvemini, invece, cita uno scrupoloso fatto fare dal Congresso internazionale ebraico, che in quegli anni era alla ricerca di una futura patria per gli ebrei. I suoi contenuti sono assolutamente contrari a ogni insediamento in Libia.
A latere del dibattito sulla Libia, La Voce pubblicava un numero speciale sulla Questione meridionale, dove Prezzolini era riuscito a radunare firme autorevoli come quella di Giustino Fortunato e Luigi Einaudi. Gli articoli sono tutti improntati ad una rigorosa analisi dei ritardi del Mezzogiorno ma è chiaro che tra gli argomenti utilizzati dai critici nei confronti dell’impresa libica, c’è proprio il riferimento alle condizioni del Sud sul quale l’Italia avrebbe fatto meglio a concentrare i suoi sforzi. Tra gli oppositori c’è anche un giovane massimalista socialista, Benito Mussolini.
Giovanni Giolitti quando la questione libica si profila all’orizzonte è timido, lo «scatolone di sabbia» non lo entusiasma, l’Italia ha scarse risorse. Tuttavia, da grande manovratore coglie le opportunità politiche, fare l’impresa coloniale può tacitare i nazionalisti e limitarne l’ascesa, inoltre, questa concessione a destra gli consentirà di lì a poco di introdurre il suffragio universale, il voto a tutti i maggiorenni di sesso maschile, un’autentica riforma democratica. Giolitti chiuderà bene la faccenda libica sul tavolo diplomatico, consacrando la sua leadership. Nota La Voce: «Giolitti (l’uomo antinazionalista per eccellenza, il piemontese, in babbucce, l’addormentatore nefasto) è andato a Tripoli….». Tutto sommato l’Italia si scontrerà con una potenza come l’Impero Ottomano e vincerà, mostrando un’insperata organizzazione e sanando la ferita della sconfitta di Adua.
Dopo essersi opposti con ogni argomento all’azione coloniale in Libia, con l’editoriale, A Tripoli, La Voce decide di sostenere la guerra. Non è un cambio repentino di posizione ma l’esaltazione di una posizione di coesione nazionale, per la quale occorre mettere da parte le divisioni. «Noi stimiamo la disciplina come massimo pregio», avverte Giovanni Amendola «così degli individui che delle nazioni, e non mancheremo al nostro dovere di disciplina nazionale in questa occasione…». Riccardo Bacchelli scrive che questa guerra ha rivelato la disciplina agli italiani. E Prezzolini aggiunge: «La guerra è l’esame generale cui la storia chiama ogni tanto i popoli». A causa di questa posizione nazionale Salvemini lascerà polemicamente La Voce. I socialisti, almeno in linea di principio, osteggiano la guerra ma non vogliono apparire antinazionali e puntano a incassare il suffragio universale che con l’allargamento della base elettorale li farà diventare un grande partito. Gli unici ad opporsi davvero alla guerra sono i sindacalisti rivoluzionari, che proclamano uno sciopero generale il 27 settembre del 1911. Riesce, però, solo nella cittadina di Forlì. L’Italia avrà lo «scatolone di sabbia».