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 2011  marzo 07 Lunedì calendario

QUANDO LA PRUDENZA CREA VALORE

IL DIBATTITO su crescita, reddito e ricchezza è particolarmente intenso. Vi è generale concordanza sul fatto che le famiglie italiane sono al primo posto per ricchezza privata, potendo esse vantare il più alto rapporto tra ricchezza e reddito disponibile tra i Paesi del G-7. Ma vi sono diverse valutazioni se ciò sia un bene o un male per l’Italia.
Fissiamo, anzitutto, alcuni concetti. La ricchezza è la somma delle attività finanziarie possedute dalle famiglie (depositi bancari, titoli di Stato ed obbligazioni, azioni) meno i debiti (mutui per la casa, altri debiti per il credito al consumo, ecc.) più le attività non finanziarie (case, terreni, ecc.). La ricchezza, dunque, è uno stock. Il reddito invece è un flusso ed è rappresentato dalle entrate annue delle famiglie. Dal reddito, attraverso il risparmio, si può generare un aumento graduale dello stock di ricchezza, che può crescere anche per effetto dell’incremento di valore degli immobili o dei titoli posseduti (ad esempio quando la Borsa sale).
Secondo alcuni opinionisti il fatto di essere molto ricchi conta fino ad un certo punto perché l’Italia, se è indubbiamente prima in classifica per ricchezza, è ultima per aumento del reddito. Ciò dimostrerebbe che nel nostro Paese la ricchezza è male utilizzata e non aiuta la crescita. Inoltre, la ricchezza degli italiani originerebbe principalmente da posizioni di rendita e, poiché queste ultime normalmente non contribuiscono a far nascere idee nuove e a creare imprese, ciò bloccherebbe il nostro sviluppo. Queste tesi, per quanto diffuse, a nostro avviso sono poco fondate. Non aiutano a capire i meccanismi della crescita e ad individuare eventuali inceppamenti degli stessi su cui la politica economica può tentare di agire.
Cominciamo con il precisare che l’Italia non soltanto presenta un’elevata ricchezza pro capite ma, come ha dimostrato un recente studio del Credit Suisse, tale patrimonio è anche tra i meglio distribuiti tra la popolazione. Infatti, nel 2010 l’Italia ha fatto registrare la più alta ricchezza mediana del mondo assieme alla Norvegia e all’Australia: due Paesi ricchissimi di materie prime mentre noi non ne possediamo. Le nostre materie prime sono il lavoro e l’imprenditorialità diffusa: è da esse che è nata la nostra ricchezza, non dalle rendite.
In Italia vi è certamente un maggior numero di piccoli imprenditori ed artigiani rispetto al numero totale di notai, avvocati e farmacisti: corporazioni, queste ultime, che secondo taluni “bloccherebbero” lo sviluppo e perciò andrebbero liberalizzate. Su una simile opzione si può anche concordare in linea di massima, non tanto per la sua reale efficacia in termini di potenziale impulso all’economia ma semplicemente perché si tratta di una scelta che va nella direzione dell’equità. Tuttavia, sarebbe un grossolano errore di valutazione pensare che la ricchezza che abbiamo accumulato nel tempo sia nata soltanto dalle rendite di posizione delle caste e delle categorie professionali “protette”. Allo stesso modo, pur essendo certo che una parte della ricchezza degli italiani, così come dei loro redditi, origina anche dal sommerso, sarebbe fuorviante pensare che l’Italia è più ricca di altri Paesi soltanto perché da noi vi è un’elevata evasione fiscale.
In realtà, siamo più ricchi, e la nostra ricchezza è meglio distribuita che negli altri Paesi (come indica la mediana), soprattutto perché gli italiani nel secondo dopoguerra sono riusciti a trasformarsi da un Paese essenzialmente agricolo, quale eravamo, nella quinta potenza manifatturiera del mondo davanti a Francia e Gran Bretagna, perché siamo il secondo Paese europeo per numero di pernottamenti di turisti e perché siamo anche riusciti a modernizzare e ad elevare qualitativamente la nostra agricoltura che è oggi la seconda d’Europa per valore aggiunto.
Gli italiani hanno poi investito la ricchezza accumulata grazie al lavoro nella proprietà delle case (che è un fattore di stabilità sociale) o hanno messo i loro soldi in banca senza cercare guadagni facili con la speculazione. Scelte criticabili? Forse si è trattato di decisioni fin troppo prudenti ma sicuramente il modo in cui gli italiani hanno impiegato la loro ricchezza non ha frenato né frena lo sviluppo. Infatti, mettere i risparmi in banca non significa “congelarli” perché gli istituti di credito fanno “girare” i capitali nel sistema, finanziando non tanto i farmacisti (o la speculazione come è accaduto in America) bensì le piccole e medie imprese che sono il vero motore della nostra ricchezza. Di ciò dovremo essere tutti consapevoli e orgogliosi, specie quest’anno in cui cade il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Non dobbiamo affatto vergognarci di essere diventati ricchi perché abbiamo lavorato molto e tutto ciò che abbiamo ottenuto ce lo siamo meritato.
Naturalmente l’Italia non è perfetta. Il Nord-Centro è ricco come la Svezia mentre il Mezzogiorno è ancora assai indietro. Ma non perché nel Sud ci siano poche parafarmacie (comunque benvenute) bensì perché c’è troppo Stato e poca imprenditorialità privata.
Sulla dinamica più lenta del reddito degli italiani rispetto agli altri Paesi ci siamo già più volte soffermati su queste colonne evidenziando la scarsa utilità dei confronti sulla velocità della crescita degli ultimi anni, visto che chi andava più forte di noi è sbandato ed uscito rovinosamente di strada: Grecia, Irlanda, Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Islanda, ecc.
Si tratta di un dibattito sterile e incoerente. Infatti, da un lato quasi tutti ormai criticano il modo in cui le economie della “bolla” finanziaria erano cresciute prima della crisi. Ma, dall’altro lato, si persevera comunque ostinatamente nel fare raffronti tra i bassi tassi di sviluppo storici dell’Italia e l’effervescente crescita “sbagliata” di tali Paesi. Quanto tale crescita sia stata deleteria è dimostrato da un dato molto importante. Negli ultimi dieci anni, mentre gli Stati Uniti, l’Irlanda ed altre economie simili ostentavano tassi di sviluppo del reddito superiori ai nostri, basati su un incremento insostenibile dei loro debiti privati, tali Paesi stavano ponendo le premesse per una riduzione duratura della loro ricchezza, che è oggi più bassa di 7-8 anni fa, mentre la ricchezza degli italiani (e dei tedeschi e dei francesi) è costantemente aumentata. Significativo è un grafico interattivo del sito Internet dell’ “Economist” pubblicato questa settimana dove si può vedere che il prezzo nazionale delle case in termini reali negli Usa oggi è più basso di dieci anni fa mentre in Italia è più alto del 40% circa.
Naturalmente essere ricchi non basta. Infatti, va considerato che solo le classi medie ed abbienti riescono a godere di incrementi di valore dei loro patrimoni e a risparmiare in modo apprezzabile anche in presenza di una crescita debole o nulla del reddito. E l’Italia, per quanto statisticamente ricca, non sfugge a questo rischio. I più colpiti sono certamente i lavoratori dipendenti a basso stipendio e i giovani in cerca di occupazione che non possono contare sull’appoggio della propria famiglia (specialmente nel Mezzogiorno). Per questo è importante tornare a crescere. Ma senza l’illusione che le liberalizzazioni da sole possano bastare a mettere il turbo al motore della nostra economia. Perché nei Paesi avanzati difficilmente la prospettiva di crescita del Pil sarà superiore all’1-1,5% annuo nei prossimi cinque anni, fermi restando i vincoli dei bilanci pubblici e i lunghi strascichi della crisi finanziaria provocata dai Paesi che erano cresciuti più di noi ma che paradossalmente oggi sono diventati più poveri di noi.