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 2011  marzo 07 Lunedì calendario

NEL MIRINO DEI CORSARI LE ROTTE DEL GREGGIO

Di successo in successo (sequestri di navi sempre più numerosi, pingui bottini con il riscatto di equipaggi e carichi), i "fratelli della Costa" somali hanno raggiunto un peso politico-strategico molto elevato, che condiziona ormai gli equilibri di una regione ben più vasta delle coste del Corno d’Africa da cui operano. E che fa percepire la prossima adozione di una serie di contromisure per combatterne l’azione: personale armato a bordo, come reclamano gli armatori tedeschi e come chiede una recente proposta di legge italiana; navi dotate di armi proprie e improprie; riorganizzazione dei traffici mercantili mediante convogli, come si faceva durante la Seconda Guerra mondiale; stazionamento di flotte militari di diversa provenienza, a partire dalla missione "Atalanta" della Ue, che da quattro anni impegna da 5 a 10 navi, un paio di rifornitori e 2-4 aerei da ricognizione. Tutto ciò con costi assai elevati ma con un’efficacia tutta da provare, se è vero che gli attacchi aumentano, malgrado la loro adozione.

Cifre alla mano, come mostra il grafico a destra, si tratta di un balzo di oltre il 60% sul 2009, ma a preoccupare sono soprattutto altri due fatti. Da un lato il numero delle navi sequestrate: furono una dozzina nel 2009, sono raddoppiate lo scorso anno. Cui ne vanno aggiunte altre 14 nel solo primo bimestre di quest’anno (con ben 41 attacchi tentati, benchè la stagione invernale, con il mare più agitato, sia di solito più "tranquilla"). Segno che l’escalation è inarrestabile e l’efficacia crescente. Inoltre è aumentata la stazza delle navi catturate (tralasciando i pescherecci, in media da 16.290 a 22.420 tonnellate). Il che significa carichi maggiori ed equipaggi più numerosi (228 uomini sequestrati nel 2009, balzati a 515 lo scorso anno e a 758 ai primi di febbraio 2011), due elementi decisivi per elevare fortemente le richieste di riscatto.

«Produttività» altissima

Perchè è proprio sulla "produttività" dell’azienda pirateria che si sta fissando l’attenzione dei paesi vittime del fenomeno: il fatto che renda sempre di più (poco meno di 1 miliardo di dollari la stima dell’incasso nel 2010) diventa volano di altre adesioni, quindi di un maggior numero di nuovi assalti e di riscatti pagati: un circolo vizioso da cui non si vede l’uscita. Tutto ciò a fronte di rischi minimi. Sono infatti assai pochi gli abbbordaggi sventati con scontri a fuoco e il ferimento o l’uccisione degli assalitori, mentre per i catturati (con l’eccezione delle Yemen, che però ora ha ben altri problemi cui pensare, il quale commina la pena di morte) il rischio è di un processo pro-forma e di una rapida liberazione. La Gran Bretagna, con alcuni paesi scandinavi, ha addirittura rinunciato a priori a portare in giudizio gli accusati di pirateria «nel timore di ledere i loro diritti umani», come ha sostenuto The Guardian (la flagranza sarebbe una prova quasi impossibile da ottenere). Altri, come l’Olanda, processano, ma poi concedono con facilità l’asilo politico: alla fine, se va male l’attività di pirata, c’è la ragionevole probabilità di migliorare comunque la propria esistenza restando a vivere legalmente in un ricco paese europeo, rispetto alla certezza di languire per sempre in un paese-paria come la Somalia.

Se dal circolo vizioso "pirateria-facili guadagni-bassi rischi-aumento del fenomeno" è sempre più difficile uscire, non è però detto che non si possa cercare di contrastare il fenomeno. Perchè i suoi costi indiretti (assicurazioni e noli in forte aumento, valore del "fermo-nave" e così via) sono ormai enormi, stimati da The Economist in 5-7 miliardi di dollari l’anno. Ma soprattutto perchè, nelle scorse settimane, i pirati hanno alzato ulteriormente il tiro, passando al sequestro di grandi petroliere: l’italiana "Savina Calyn", di 103mila tonnellate, e la greca "Irene Sl", di 313mila, carica di ben 200 milioni di dollari di greggio.

Alleanza perversa

È questo che l’Occidente non sembra più disposto a tollerare: un’ulteriore iniezione di ricchezza potrebbe dare alla pirateria un’invincibilità di fatto. Inoltre le petroliere cariche sono un’arma gigantesca nelle mani di potenziali terroristi. Gli stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb, vene giugulari dei trasporti petroliferi dell’Occidente e dell’Estremo Oriente, sono a un paio di giorni (o addirittura a poche ore) di navigazione dai loro rifugi. E anche i porti di Aden o Mumbai, Karachi o Mombasa sono a portata di attacco. I pirati somali – stando alla denuncia di The Times del 24 febbraio scorso – avrebbero poi raggiunto un accordo con gli Shabaab (le milizie islamiche che controllano la Somalia meridionale accusate dagli Usa di fiancheggiare al-Qaida) per "affittare" i porti del Sud del paese in cambio del 20% del valore dei riscatti ottenuti.

Per impedire il saldarsi di queste diverse minacce i principali protagonisti della lotta alla pirateria stanno pensando a una soluzione definitiva del problema. Secondo il think-tank energetico Usa "Oilprice", la Nato starebbe valutando un’azione collettiva, frenata nei suoi piani soltanto dal massiccio impiego in Afghanistan delle forze speciali necessarie. E Washington, finora titubante nel ricordo della fine ingloriosa della missione somala "Restore Hope" del 1992-94, starebbe rapidamente mutando opinione dopo il brutale omicidio di quattro crocieristi Usa sequestrati nel golfo di Aden nelle scorse settimane. Cina, Russia, Giappone e India sarebbero pronte a dare un adeguato sostegno.