Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 05/03/2011, 5 marzo 2011
LE RELAZIONI EURO-ARABE MEGLIO LE SOCIETÀ DEI GOVERNI
L’Italia è l’esempio più eclatante, ma non il solo, di una incapacità di porre la questione dei rapporti dell’Europa con l’Islam in una prospettiva storica, e in conoscenza di causa. Oggi ministri del nostro governo individuano in paventate «derive islamiche» il problema più grave. Si direbbe (ipotizzo) che esista quasi un timore di affrontare tale questione, difficile da inquadrare e gestire, perché troppo complessa, oppure perché politicamente scottante sulla quale l’Europa è divisa (Turchia docet), quando non anche per miopie di natura ideologica. C’è una incapacità di vedere o vedere senza trarne le conseguenze, che la maggiore sfida cui oggi l’Europa deve far fronte è proprio quella dei rapporti con l’Islam; e di capire che dal momento che i governi non possono avere un ruolo nella ricerca di un riavvicinamento poiché le loro passate politiche li rendono interlocutori invisi e poco credibili, soltanto o soprattutto un dialogo tra le rispettive società civili può liberare entrambe le parti da stereotipi e pregiudizi. L’altro grande problema è l’assenza di una visione e di una strategia condivisa della Unione Europea nei confronti del mondo islamico, con il Medio Oriente spesso ridotto a sinonimo di petrolio, e altrimenti entità socioculturale retrograda e destinata a rimanere tale. L’Europa parla a più voci, che si contraddicono l’un l’altra, le voci nazionaliste più alte di quelle liberali — e non dobbiamo quindi stupirci dell’incapacità di esercitare una reale influenza. Chiediamoci allora quale sarà il prezzo che l’Europa dovrà pagare per tanta disattenzione.
Alessandro Silj
a.silj@consiglioscienze sociali.org
Caro Silj, l’Unione Europea non ha mai dimenticato i Paesi della costa meridionale del Mediterraneo. La commissione di Bruxelles ha negoziato accordi di associazione. I governi dell’Ue hanno firmato trattati per il controllo dell’immigrazione clandestina. Gli industriali europei hanno approfittato del minore costo della mano d’opera per installare le loro imprese nei Paesi più accoglienti: una politica sgradita ai sindacati europei ma utile per lo sviluppo delle economie locali. È certamente vero, tuttavia, che la politica dell’Europa è stata dominata dal timore dell’integralismo islamico, da una inconfessata diffidenza per le società arabe e soprattutto dal desiderio che ciascuno stesse a casa sua: tre fattori che presentavano il vantaggio di essere in sintonia con le paure della parte meno liberale e informata delle nostre società nazionali. È questa una delle ragioni per cui non abbiamo compreso il movimento democratico che stava crescendo fra i giovani delle società arabe. Vi sono stati, è vero, due grandi progetti di collaborazione organica. Il primo è il Partenariato euro-mediterraneo lanciato nel 1995; il secondo è l’Unione mediterranea voluta dal presidente Nicolas Sarkozy e fondata a Parigi nel luglio 2008. Sul Partenariato esiste un rapporto edito nel giugno del 2010 dall’Osservatorio di politica internazionale a cura di Roberto Aliboni e Silvia Colombo in cui il lettore troverà un quadro preciso e poco consolante dei progressi fatti. Sull’Unione temo che il rapporto, se esiste, si riduca a poche pagine. Penso anch’io quindi che là dove i governi sono stati carenti spetti alle istituzioni culturali, alle università, alle fondazioni, ai centri di ricerca di riempire il vuoto della nostra presenza culturale nei Paesi arabi. In un recente incontro all’Ispi Romano Prodi ha evocato la possibilità di offrire ai giovani delle due sponde, secondo un modello creato dal programma Erasmus, la possibilità di completare gli studi universitari dall’altra parte del mare. Si potrebbe cominciare da qui.
Sergio Romano