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 2011  marzo 05 Sabato calendario

L’ARMA SPUNTATA DELLE SANZIONI

Le sanzioni appartengono alla storia delle relazioni internazionali e sono state applicate ogniqualvolta uno Stato voleva colpire un potenziale nemico senza passare all’uso delle armi. Un blocco navale, un embargo, il controllo delle vie d’acqua o di terra su cui passavano le esportazioni e le importazioni, potevano servire a soffocarne l’economia o a ridurre la forza del suo esercito.
Ma quelle che verrebbero applicate alla Libia di Gheddafi se il colonnello riuscisse a riconquistare la Cirenaica o, quanto meno, a consolidare il suo potere in Tripolitania, sono diventate, dopo la creazione della Società delle Nazioni e dell’Onu, le punizioni con cui la comunità internazionale manifesta la sua riprovazione per il comportamento di uno Stato e cerca di costringerlo a modificare la sua politica.
La punizione, tuttavia, può essere più formale che sostanziale. Quando l’Italia invase l’Etiopia nell’ottobre del 1935, la sanzione più efficace, forse decisiva, sarebbe stata la chiusura del Canale di Suez alle navi italiane che trasportavano truppe e materiali verso le coste della Eritrea e della Somalia. Ma la Gran Bretagna, proprietaria e custode del Canale, volle evitare un gesto ostile che avrebbe pregiudicato i suoi rapporti con l’Italia quando non aveva ancora rinunciato ad avere con il regime di Mussolini un rapporto di buon vicinato. Gli Stati Uniti, d’altro canto, non interruppero le loro esportazioni di petrolio. Non erano membri della Società delle Nazioni, preferirono adottare una linea di stretta neutralità e ne dettero una prova inviando in Etiopia, sul fronte italiano, un osservatore militare che portò con sé a Washington, dopo la fine della guerra, un rapporto piuttosto elogiativo sulla condotta delle operazioni. Le sanzioni contro l’Italia furono quindi una sorta di boomerang. Le procurarono qualche tollerabile inconveniente e dettero al regime l’occasione per proclamarsi vittima di un complotto internazionale. Mussolini dovette in buona misura alle sanzioni lo straordinario consenso di cui godette sino al 1939.
Pochi anni dopo l’America fece contro il Giappone ciò che aveva rifiutato di fare contro l’Italia. Alla fine di settembre del 1940 proibì l’esportazione di ferro e acciaio, nel luglio del 1941 congelò tutti i crediti giapponesi nelle banche americane. Roosevelt sperava che queste misure economiche, fra cui un embargo sull’esportazione di prodotti petroliferi, avrebbero costretto i giapponesi a moderare la loro aggressiva politica imperiale in Cina e nell’Indocina francese. Ma le sanzioni ebbero piuttosto l’effetto di rendere il Giappone ancora più bellicoso e di accelerare i suoi piani per il bombardamento di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. Durante la guerra fredda le reciproche sanzioni furono numerose. Nel 1950 gli Stati Uniti invitarono la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, i Paesi Bassi e il Lussemburgo a sedere insieme in un gruppo di lavoro chiamato Cocom (Coordinating Committee) per aggiornare periodicamente la lista dei prodotti «sensibili» che l’Occidente non avrebbe venduto all’Unione Sovietica e ai Paesi satelliti. Allargato poi ad altri Paesi del blocco occidentale, fra cui il Canada e la Germania, il Cocom divenne il cane da guardia delle esportazioni occidentali verso l’universo comunista. Il sistema non impedì che qualche industria, anche italiana, riuscisse ad aggirare i divieti e dette uno straordinario impulso allo spionaggio industriale, ma la guerra fredda aveva regole che occorreva osservare.
Meno giustificato e ancora oggi molto discusso è l’embargo che gli Stati Uniti proclamarono contro Cuba nel 1961. Quando Fidel Castro, in gennaio, chiese che Washington riducesse a sette persone il personale dell’ambasciata americana all’Avana, il presidente Kennedy interruppe le relazioni diplomatiche e dichiarò contro l’isola una sorta di guerra economica a cui si aggiunse in aprile una guerra per procura con lo sbarco nella Baia dei porci di una forza composta da 1600 esuli cubani. L’operazione fallì, ma l’embargo esiste ancora con qualche correzione a vantaggio delle esportazioni americane quando la potente lobby degli agricoltori chiede e ottiene dal governo il diritto di vendere il suo grano nell’isola. Oggi Barack Obama sarebbe probabilmente disposto ad allentare il nodo intorno al collo dell’economia cubana, ma il problema, per gli Stati Uniti, è ormai più interno che internazionale. Gli americani di origine cubana sono due milioni, risiedono soprattutto in Florida e rappresentano un blocco elettorale di cui occorre tenere conto.
Di tutte le sanzioni proclamate contro uno Stato africano le più efficaci, a prima vista, furono quelle contro il Sudafrica e, in particolare, la legge votata nel 1986 dal Congresso degli Stati Uniti (il Comprehensive anti-Apartheid Act). Ma il governo di Pretoria resistette lungamente e cambiò la sua politica soltanto quando si accorse che la formula della separazione, adottata alla fine della seconda guerra mondiale, aveva provocato un’ondata di violenza che avrebbe distrutto la coesione nazionale e reso il Paese difficilmente governabile. Del tutto inutili e controproducenti furono invece le sanzioni decretate contro l’Iraq di Saddam Hussein, principalmente in materia di esportazioni petrolifere, dopo la prima guerra del Golfo. Fu evidente che le sanzioni affamavano gli iracheni, pregiudicavano le condizioni sanitarie del Paese (si dice che l’embargo abbia provocato la morte di 500.000 bambini) e non avevano alcun effetto sulla stabilità del regime. Ne approfittarono invece gli speculatori, i contrabbandieri e tutti quegli apparati dello Stato che favorivano le loro operazioni. La comunità internazionale decise di attenuarle con un programma chiamato «oil for food» (limitate vendite di petrolio contro cibo e medicinali), ma il sistema delle licenze finì per rendere il fenomeno della corruzione ancora più esteso e per contagiare persino le Nazioni Unite. Qualcosa del genere accadde nel caso della Serbia durante l’ultima fase delle guerre balcaniche: molti divieti, molto contrabbando e molti conti correnti aperti per gli uomini del regime soprattutto nelle banche dell’isola di Cipro. Quanto alle sanzioni contro la Libia dopo l’attentato di Lockerbie e contro l’Iran dopo l’elezione di Mahmud Ahmadinejad, sarebbero state efficaci, forse, se i due Paesi non avessero continuato a vendere, in un modo o nell’altro, i loro idrocarburi e se ciascuno di essi non avesse potuto contare su parecchi amici compiacenti. Non è un caso che in Libia, in Iran e in Corea del Nord i progetti nucleari abbiano fatto progressi proprio in epoca di sanzioni.
Ho citato soltanto alcuni episodi, scelti a caso fra quelli di cui abbiamo maggiore memoria. Ma credo che gli esempi bastino per qualche riflessione d’ordine generale. Se si propongono di soffocare l’economia di un Paese e di spingere la sua popolazione a insorgere contro l’odiato regime, le sanzioni falliscono generalmente lo scopo. Nell’economia globalizzata le merci e il denaro trovano sempre, come l’acqua, la crepa attraverso la quale è possibile passare. Il popolo minuto soffre, ma gli esponenti del regime possono sfruttare la fame dei loro sudditi e trarne un doppio vantaggio: economico, perché controllano le leve della distribuzione, e politico, perché possono dire alle loro società che il responsabile delle loro sventure è, «come sempre» , l’Occidente.
Sergio Romano