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 2011  marzo 05 Sabato calendario

LA STAGIONE DELLE NOMINE

Manca un mese al 4 aprile, scadenza entro la quale il ministero dell’Economia dovrebbe definire le liste. Ma già sulle nomine ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste Italiane torna a gravare l’ombra dei partiti della coalizione e dei circoli opachi della capitale. Si legge di incontri e di cene dove seggiole e poltrone vengono ripartite secondo le appartenenze dei manager senza alcuna attenzione ai risultati di ciascuno e al futuro delle imprese. Eppure, per un governo che promette meritocrazia e frustate liberiste, le nomine rappresentano un banco di prova di fronte ai mercati e all’opinione pubblica. Negli ultimi anni, i giochi di potere in alcuni grandi gruppi privati— da Telecom Italia alle Generali, da Unicredit a Intesa Sanpaolo— hanno minato il modello del grande capitalismo nazionale. La cosa può scoraggiare chi l’aveva idealizzato. Ma come il settore privato non cesserà di cercare nuove strade, così lo Stato non avrebbe giustificazione se abdicasse al suo ruolo di azionista pubblico, e dunque responsabile, lungimirante e trasparente, laddove il governo ha deciso di non procedere oltre con le privatizzazioni. È un ruolo, questo, che si esercita analizzando i risultati dei manager in scadenza con serietà da holding. Con serietà vuol dire che si paragonano le grandi aziende a partecipazione statale (chiamiamole con il loro nome) alle loro pari pubbliche e private in Europa e nel mondo, consapevoli che un certo italian discount nelle performance borsistiche non può fungere da alibi sui fondamentali. Che si riassumono nella capacità di generare buoni profitti e di osservare una rigorosa disciplina finanziaria senza compromettere lo sviluppo futuro prosciugando le risorse interne per drogare il rendimento immediato per l’azionista. Ma rileggere il passato è utile soprattutto se aiuta a guardare al domani. Nel 2011, allo Stato azionista si richiede certamente di scegliere persone competenti e integre, capaci di presidiare l’impresa, anche contro l’invadenza dei partiti. Ma questo non basta più. Dopo il crac della Lehman, la filosofia della mera creazione di valore per l’azionista mostra ormai la corda. La stessa grande impresa privata — basti vedere l’evoluzione dell’industria dell’auto — si sta dimostrando un ben più articolato reticolo di interessi. Allo Stato azionista, dunque, si richiede anche di avere un’idea del ruolo delle «sue» imprese nella società e nell’economia italiana: se il Bancoposta debba fare o meno concorrenza alle banche; se l’Eni debba conservare o meno la sua forza monopolistica nel gas; se del nucleare l’Enel debba soltanto parlare o se debba procedere; se Terna diventerà o no il perno finanziario delle infrastrutture energetiche; se Finmeccanica avrà un orizzonte europeo o americano. Se in tutte queste imprese si debbano costruire gruppi dirigenti capaci di rinnovarsi, com’era nella prima Iri e com’è nelle migliori multinazionali anglosassoni, o se debbano restare aperti alle scorrerie dei rappresentanti provvisori dell’azionista Stato. È politica industriale? Sì, lo è. Come lo sono gli incentivi per le fonti rinnovabili. Che, magari, sarebbe stato meglio sostenere con gradualità e tempi europei e con attenzione «tedesca» alla ricerca e alla filiera impiantistica anziché con l’improvvisazione e la sudditanza alle furbizie italiane. Ma, a differenza di quegli incentivi, questa politica industriale potrebbe perfino portare benefici ai consumatori e alla bilancia commerciale.
Massimo Mucchetti