ANDREA MALAGUTI, La Stampa 4/3/2011, 4 marzo 2011
Ella, la bimba inglese venuta dal freddo - Va detto prima, è una storia a lieto fine. Si potrebbe intitolare: il miracolo della bambina ibernata
Ella, la bimba inglese venuta dal freddo - Va detto prima, è una storia a lieto fine. Si potrebbe intitolare: il miracolo della bambina ibernata. Nove mesi fa, esattamente nell’istante in cui è nata, Ella Claxton, figlia di Rachel e di Jason Claxton, lavavetri del distretto di Peterborough, era tecnicamente morta. Una complicazione improvvisa, dopo nove mesi di gravidanza serena. L’ostetrica che l’ha messa al mondo, una donna sottile con mani da pianista, l’ha appoggiata sulla pancia della mamma con un riflesso condizionato, ma ci ha messo meno di tre secondi per capire che qualcosa non andava. Il tempo impiegato da Rachel per accarezzare per la prima volta la testa di sua figlia. «Non piange, perché non piange?». Era l’inizio di venticinque minuti di terrore. Il medico ha preso i tre chili di Ella tra le dita e ha ascoltato il battito del suo cuore. Nulla. Ha chiamato aiuto con una foga normalmente estranea alle sale operatorie. Poi ha cominciato a massaggiare la piccola. Cinque minuti, dieci, quindici. Chiunque altro avrebbe lasciato perdere. Lui no. E’ andato avanti per i 1500 secondi più lunghi della sua vita. Finché il cuore di Emma è ripartito. Lontano, come il colpo di un tamburo che si perde in mezzo alla foresta del tempo. «La bambina è qui con noi». L’ha detto con la certezza che la cosa non sarebbe finita lì. Rachel Claxton ha abbracciato il marito, mentre il medico provava a spiegare che l’ossigeno non era arrivato al cervello per un periodo infinito e che le probabilità di danni irreparabili erano altissime. «Rischia di non parlare mai più. E forse neppure di camminare. Forse non supererà la notte». I medici sono spietati nella loro sincerità, ma in questo caso avevano in tasca una soluzione di riserva. La macchina del freddo. Uno strumento nuovo che l’ospedale di Cambridge, a mezz’ora di macchina da lì, aveva acquistato da poco. Un aggeggio molto sofisticato che scarica la pressione dalla massa cerebrale e riesce a garantire per un certo periodo quel delicato equilibrio del corpo che lo mantiene nello stato di ibernazione necessario a riacquistare completamente le funzioni vitali senza che il cuore cessi di battere. Tre ore più tardi Ella era nell’incubatrice del freddo. Jason Claxton racconta che l’immagine di quel momento ancora adesso gli sembra un film. «Le hanno messo una specie di vestitino bianco. Mi sembrava un superpannolone. Era attaccato a un tubo che pompava acqua e serviva per tenerle la temperatura a 33.5 gradi. Un altro tubo la alimentava da un braccio e un pezzo di plastica ulteriore le portava le vitamine. Respirava con una mascherina. Ogni giorno aumentavano la temperatura di mezzo grado. Avevo il cuore spaccato a metà. Ho scoperto che cosa vuole dire pregare». Adesso che il peggio è passato, Jason dice che quella bambina lui e Rachel l’hanno voluta con ostinazione, per ridare senso a un mondo al diminutivo, per spazzare via una ragnatela di abitudini tristi che avevano assunto la meschina malinconia di un fermacarte a palla in cui nevica dentro. «Dopo 72 ore l’hanno tolta dalla macchina e dopo undici giorni ci hanno detto che potevamo portarla a casa. Che i suoi valori erano pressoché normali. Non è un miracolo questo? Ci vorranno ancora delle terapie, ma la nostra piccola sarà una bambina come le altre». Non è vero. La loro bambina è speciale. «Forse è entrata nel mondo dalla porta sbagliata, ma ha aperto la strada a tante altre neonate come lei». Ella, vestita di rosa, allarga il sorriso senza denti verso una macchina fotografica. Ha gli occhi scuri molto pieni di luce. Rachel le bacia una guancia. «Ti piace il mondo, piccola donna venuta dal freddo?».