Giovanni Belardelli, Corriere della Sera 04/03/2011, 4 marzo 2011
NUOVA CINA E VECCHI FANTASMI. QUANDO LA FELICITA’ E’ DI STATO
Da qualche mese i vertici del Partito comunista cinese vanno proclamando con insistenza l’intenzione di promuovere la «felicità» della popolazione. Si tratta di uno slogan presumibilmente pensato soprattutto per arginare certi malumori della classe media, che comincia a guardare con preoccupazione al proprio futuro per i motivi che Marco Del Corona spiega oggi nella sua corrispondenza da Pechino. Ma quei riferimenti alla felicità, assurta così nei fatti a obiettivo politico, lasciano a dir poco perplessi. Non solo perché sembrano contraddetti dai caratteri autoritari del regime (quanto avrà contribuito alla felicità dei cinesi la politica del figlio unico, in vigore da decenni, che ha provocato l’aborto selettivo di milioni di bambine?). Quel richiamo alla felicità fa anche venire alla mente la neolingua delle dittature del ’ 900, che mentre producevano orrori e crimini nelle dimensioni di massa che conosciamo, pretendevano però di stare realizzando una qualche forma, appunto, di felicità. Quasi mezzo secolo fa, fu la stessa rivoluzione culturale cinese, cioè la fase più totalitaria nell’intera storia del regime comunista, a volere accreditare di se stessa un’immagine estremamente gioiosa e felice, attraverso un’iconografia di Stato non troppo diversa da quella dell’arte ufficiale nazista o stalinista. Nelle grandi dittature del secolo passato era soprattutto il lavoro a dover assumere (per un obbligo ineludibile imposto dal partito al potere) i colori del piacere e della felicità (così lo stacanovismo sovietico, così il movimento ricreativo tedesco Kraft durch Freude, «forza attraverso la gioia» ). Dietro quell’immagine, come sappiamo, si celava la realtà di campi di lavoro che erano al contempo campi di concentramento e di morte. Naturalmente, non v’è nulla di sbagliato nell’idea che i propri concittadini possano aspirare alla felicità. Anzi, quell’idea ha rappresentato un principio base delle democrazie moderne a partire dalla Dichiarazione d’indipendenza americana, che parlava appunto di un diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità» (al «perseguimento» , si noti, quasi a sottolineare che la felicità è soprattutto importante per lo sforzo che si compie nel cercarla). Ma quel diritto alla felicità faceva appunto tutt’uno con la libertà individuale, con la facoltà di ciascuno di perseguire non una felicità codificata e uniforme, stabilita dall’alto, bensì la propria idea di felicità. La libertà dei moderni, secondo quel che Benjamin Constant scriveva quasi due secoli fa, consiste precisamente nell’idea che non può (e dunque non deve) essere lo Stato a renderci felici: l’autorità, scriveva, «si limiti a essere giusta, noi ci incaricheremo di essere felici» . Sulla stessa linea, quel grande osservatore della democrazia moderna che fu Alexis de Tocqueville metteva in guardia dai pericoli di un nuovo, subdolo autoritarismo, impersonato da uno Stato che «lavora volentieri alla felicità dei cittadini, ma vuole esserne l’unico agente e il solo arbitro» ; fino al punto estremo di «levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere» . Le società di oggi — e con essa la democrazia contemporanea — sono molto cambiate dai tempi di Constant e di Tocqueville. Un po’ in tutte le democrazie varie forme di protezione sociale da parte dello Stato sono da tempo ritenute indispensabili per permettere effettivamente a ciascuno di perseguire la propria felicità. E tuttavia la differenza di fondo non è cambiata rispetto a quanto segnalato dai grandi liberali dell’ 800: da una parte lo Stato autoritario, che sostiene di voler fare la nostra felicità; dall’altra lo Stato democratico che cerca di attuare il principio che è ciascuno di noi a decidere come essere felice. Col rischio molto concreto di non riuscirvi, s’intende; ma è un rischio che fa tutt’uno con la nostra libertà.
Giovanni Belardelli