Giancarlo Dotto, Sette 3/3/2011, 3 marzo 2011
I SEGRETI DEI LADRI DI PORTAFOGLI
Napoli. Piazza Dante. Sotto la statua del Sommo, i ragazzi giocano a calcio con un pistone, partita regolare, sei contro sei. Ho le antenne dritte. So che sto per essere derubato. So che il tipo davanti a me, un pezzo d’uomo ben piantato sotto il berretto da baseball, sta per infilarmi la mano in tasca. Lui mi punta, mi viene addosso, mi urta, il tempo di una strattonatina. Si ritrae, scuote la testa. Il portafoglio è ancora lì nella mia tasca posteriore. «Non te lo posso prendere…», fa lui mollando un ghigno filibustiere mentre dalla mano gli spuntano due bigliettoni da cinquanta euro. «Questi sono tuoi, rimettili nel portafoglio». Mi ha fatto fesso, ora trattiamo sul nome. «…Mettimi un nome accussì, anonimo, Farfallino, Napoleone… Se io divento pubblico non posso fatica’ chiù…». Troviamo l’accordo. «Va bbuono, metti Raffaele va».
Raffaele, 52 anni, professione maestro borseggiatore. Accende una Chesterfield dietro l’altra. Se la passa veloce di mano, dopo ogni tiro. Sembra un tic, ma è un metodo per allenare le dita. «Adesso ti spiego una cosa, il borseggiatore vero non ti ruba il portafoglio. Io esco per prendere i soldi, dei documenti che me ne faccio? A scendere con il portafoglio dall’autobus io rischio. Se mi fermano e me lo trovano addosso vado in galera. Invece se mi fermano con i soldi io posso dire che sono i miei».
Per essere un capitolo di letteratura criminale, Raffaele ci tiene alla sua rispettabilità. «Noi non facciamo del male a nessuno, non usiamo violenza, è una cosa di destrezza. Diciamola così, è una distrazione delle persone e una capacità nostra di prendere qualcosa da loro». Da circa quarant’anni Raffaele infila le mani nelle tasche delle persone “distratte”, per alleggerirle di quello che, nella sua visione, è superfluo per loro, essenziale per sé. «È un’arte, col tempo diventa un mestiere», dice con una punta di amabile tedio.
«Avevo tredici anni quando ho cominciato. Facevo il barista nella zona universitaria e vedevo i ragazzi più grandi di me come mettevano le mani nelle borsette e pian piano mi sono buttato appresso a loro».
Hai avuto un maestro?
«No, è stata una cosa spontanea. Mi sono inserito, ma già io venivo da un quartiere, San Giuseppe Porto, dove rubavano tutti».
Il tuo primo borseggio?
«A Mezzocannone per strada, ottantamila lire. Trentasette anni fa erano soldi. Come mille euro di oggi. Li nascosi in un basso di mia nonna e li prendevo un po’ alla volta. Questa cosa mi ha incoraggiato di più a questo mestiere, io guadagnavo tremila lire alla settimana facendo il barista. Ottantamila lire in un secondo erano altra musica».
La vittima?
«Una donna. All’epoca si usava molto per le signore vip portare delle borse a canestrella. Era facilissimo buttare la mano dentro e prendere. Io ebbi il coraggio per la prima volta di buttare questa mano dentro e poi per quarant’anni non si è fermata più».
Capita mai che ti colgono sul fatto?
«È raro, ma quando capita io restituisco la roba. Anche se ti danno uno schiaffo, dal punto di vista mio me lo tengo perché ho torto. Mi sono abusato di una cosa che non è mia».
Solo uno schiaffo?
«Anche qualche calcio, ma non cambia. Ho chiesto scusa e me ne sono andato via, anche perché pago la rapina se rispondo alla persona. Il magistrato dice: non solo tu lo stavi derubando ma ora lo vuoi pure demolire? Questo fa parte di un po’ d’intelligenza dopo tanti anni di lavoro».
Emozionato la prima volta?
«No. Ero recidivo di queste cose, perché la mattina andavo al lavoro e la sera uscivo con degli amici per fare piccoli furti in qualche negozietto. Mi ha affascinato sempre questa storia… Adesso non mi affascina niente più. All’epoca mi sentivo un ragazzo più svelto, più da ammirare con le ragazzine. E poi mi piaceva portare i soldi a casa. In famiglia eravamo sette, madre, padre e cinque figli».
I fratelli sono nel settore?
«Un mio fratello faceva il navigante. L’altro fratello mio adesso sta dentro. Cose grosse. Rapine. Deve fare ancora quattro anni. Io invece non sono mai uscito da questo ramo qua».
Vai a lavorare tutti i giorni?
«Tutti i giorni scendo, è diventata una forza dell’abitudine, come un lavoro. Io mi svolgo in varie zone. Vado dove c’è confusione».
Si nasce o s’impara?
«S’impara col tempo. Dovresti praticarmi, uscire con me un mese, due mesi. Ti potrebbe piacere anche a te».
Hai figli?
«Uno di 21 anni, lui è un bravo ragazzo. Mi dice: papà quando finisci? Te fai vecchio e ancora in coppa cu ’sti mezzi. Io rispondo sempre la stessa cosa: domani finisco. Solo che poi come si sopravvive? Io so fare solo questo».
Tua moglie che dice?
«Mia moglie sa della mia vita da giovane. Ai miei suoceri, prima di sposarmi, dissi la bugia che vivevo di contrabbando, non dissi che facevo il ladro per la strada. Era una cosa brutta. Col contrabbando era diverso, si manteneva Napoli all’epoca».
Quanti anni hai fatto in galera?
«Mi sono fatto sette, otto carcerazioni. Sono incominciato a entrare negli anni Ottanta prima del terremoto. L’ultima volta nel 2004».
Quanti borseggiatori professionisti ci sono a Napoli?
«Ne conosco una sessantina ma ce ne sono di più. Io sono uno dei più anziani del mestiere».
Lavori da solista?
«Sì, nel mio piccolo sono bravo. La mia specialità è il “frontino”. Affrontare di faccia l’uomo o la donna che viene verso di me».
Come capisci dove tengono la grana?
«Si sente il rumore, basta tastare coi polpastrelli. Fanno un piccolo cric i soldi… A volte è sufficiente lo sguardo».
Come si lavora in coppia?
«Quando siamo nel pullman vediamo dove l’uomo può avere qualcosa. Uno lo tasta e dice al compare “o’ cavallo” vuol dire davanti, “o’ dietro e ppacche” dietro, il culo. “’E bona” è il petto, nella sacchettiella della giacca».
Il colpo più audace?
«Parecchi. Mi sono presi i soldi a un mercato di Caserta da un uomo alto due metri, un gigante. Aveva i pantaloni dei zampognari e un pacco di soldi piegati nel taschino. Quasi 2 milioni. Me li sono presi tutti, di frontino».
Come fai a sfilare i soldi senza prendere il portafoglio?
«Guarda io come porto il portafoglio. Lo vedi? È capovolto. Sai perché? Per non farmi derubare. Se lo metti dritto e stai nel pullman affollato io riesco a entrare, noi diciamo “’e forbice”, con le dita a forbice. Posso entrare nelle vertebre del portafoglio e tastare dove ci sta la grana. L’attacco e sfilo i soldi».
Come si entra nelle vertebre di un portafoglio?
«Tu non devi calare la mano nella tasca, tu devi calare le dita. Quando tu stai fermo e hai i pantaloni, io con le dita da sotto ti alzo la fodera del pantalone. Alzando la fodera della tasca sale quello che c’è sotto e io con le dita a forbice aggancio la banconota e la tiro su».
Che pensa la vittima, ritrovandosi il portafoglio senza i soldi?
«È la cosa più tremenda. L’uomo che viene rubato quando rientra a casa può pensare che è stato un figlio, la moglie, un collega, non va a pensare al ladro. Si fa mille domande e succedono pure discussioni in famiglia».
Il colpo grosso?
«Settemila euro. Le ho prese di petto “a bona” in una busta, in un autobus affollato».
Prendi di petto anche le vecchie pensionate?
«No, non mi è mai piaciuto. Il vero borseggiatore non le dà le vecchiette».
Quanti borseggi in carriera?
«Assai. Fai il calcolo per quarant’anni, tutti i giorni. Trecento volte in un anno. Più di diecimila. Ne faccio pure sei o sette al giorno».
Dei portafogli che ne fai, quando li prendi?
«Li metto in un pizzo che subito dopo li trovano. Difficilmente vado a cercare la buca, perché c’ho paura, debbo essere sincero».
Quando torni a casa la sera, con tua moglie a tavola fate il bilancio della giornata?
«No, non mi ha mai domandato il mio mestiere. Nessuno mi chiede niente, però quando servono i soldi vengono tutti».
La prima volta che ti hanno preso.
«In una posta. Stavo dando a una ragazza che avevo visto per strada che aveva messo ottocentomila lire in un taccuino. Io avevo messo la mano dentro il cappotto e stavo prendendo i soldi da dentro il taccuino. C’era un ispettore di polizia dietro di me che mi afferrò».
La galera non ti ha scoraggiato.
«No, la prima volta che sono entrato a Poggioreale mi sentivo in famiglia, c’erano parecchi amici del quartiere, parenti».
Niente che ti angoscia?
«Non lo so. Forse un indomani che non ho concluso niente di positivo dalla vita. Non ho costruito niente».
In un anno quanto guadagni?
«Non lo so. Tre, quattromila al mese».
Questo mestiere lo puoi fare anche a novant’anni.
«Conosco persone di 83 anni che lo fanno. Sono i vecchi “scarpari”. È un nome antico, non si dice borseggiatore».
Hai un’idea di quando smetterai?
«Penso domani di finirla».
Lo dici da anni.
«Non è più come un tempo. Sono venuti questi marocchini che se vedono un telefonino o un pacchetto di sigarette nella sacca se lo pigliano. Fanno un danno, non il borseggio».
Chi è il vero mago in materia?
«Quello che ti ruba ventimila dollari dentro il marsupio che tieni sotto la giubba o la camicia. Io saprei farlo, ma non lo faccio».
Se ti offrissero un lavoro?
«Lavorerei. Ma chi mi prende a me? E allora faccio il lavoro che so fare».
Il cliente più facile in assoluto.
«’O fardaiuolo. Sarebbe il forestiero. I francesi no, sono tutti dritti, capiscono il mestiere, mentre l’inglese, ’o giapponese, l’americano sono più “gnocchi”».
Sei religioso?
«Cattolico. In chiesa non vado, ma credo in Sant’Antonio. A volte faccio una preghiera: perdona i peccati miei. E lui mi perdona».
A te viene mai quello che si chiama…
«’O scrupolo ’e cuscienza? Una volta. In un mercato mi presi un portafoglio di una signora, poi vidi che stava piangendo, sono ritornato indietro e ce l’ho ridato».
Un personaggio pubblico che ti piacerebbe castigare a modo tuo.
«A Berlusconi».
Pure tu ce l’hai con lui?
«Mi piacesse dicere: m’aggio fatto a Berlusconi. Una volta ho fatto un vecchio sindaco di Napoli, Valenzi, che passeggiava per San Gregorio Armeno».
Vai in trasferta?
«Sì, a Milano, Roma e Firenze, con qualche amico. Roma è la migliore, a San Pietro trovi sempre. Adesso hanno inguaiato tutto queste carte di credito coi microchip».
Con le carte di credito non ci fai niente.
«No. Però mi è capitato diverse volte che lasciano il codice dentro il portafoglio, vado al bancomat, mi sistemo e prelevo».
Hai un abbigliamento da lavoro?
«Il cappellino. Quando scendo dall’autobus lo tolgo, mi pettino i capelli con le mani e sono un altro. Lavoro con la giacca sempre aperta per mettere la refurtiva dentro. I soldi in tasca e il portafoglio sotto l’ascella, così lo faccio cadere a terra se sono in pericolo».
La tua giornata tipica.
«Esco verso le otto, prendo il caffè con qualche amico e vado dove devo andare. Mia moglie la vedo la sera quando ritorno. Vado a letto alle dieci. Una vita noiosa, sempre uguale».
Gli amici che vedi.
«Sono tutti briganti, assassini, mariuoli. Ogni tanto vedo anche il mio avvocato di fiducia».
Ci ha provato a farti cambiare mestiere?
«L’avvocato mi fa cambiare? E loro dopo cosa mangiano? Iamme, che domande!...».