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 2011  marzo 04 Venerdì calendario

STROZZATI DAL CLIMA

Il clima è una delle forze più potenti che sono alla base dell’evoluzione delle specie viventi. È stato l’adattamento a diversi ambienti e temperature che ha reso così differenti, fenotipicamente, le specie animali e le popolazioni umane che vivono all’estremo Nord oppure in Africa. Per esempio il colore chiaro della pelle serve a sfruttare al massimo i raggi del sole per produrre vitamina D; mentre il colore scuro ha al contrario un effetto protettivo alle latitudini africane. Come del resto molti dei caratteri fenotipici degli eschimesi si spiegano con la necessità di ridurre al minimo la superficie esposta all’aria e dunque la dispersione di calore, al contrario di quanto si osserva negli Africani. Queste sono alcune delle conoscenze elementari che derivano dall’applicazione della teoria dell’evoluzione e dell’adattamento allo studio dei fenotipi umani. Può inoltre accadere, occasionalmente, che una rapida trasformazione sia causata da “colli di bottiglia”, cioè eventi ambientali catastrofici. Spesso si tratta di carestie: per esempio si ipotizza che una grave carestia del passato potrebbe essere all’origine di un fenomeno che si verifica negli Etiopi. Ovvero la presenza, presso la loro popolazione, di un gene in 2-3, fino a 5-6 e perfino 10 copie, quanto normalmente è rappresentato da un sola copia. Questo fenomeno si verificò - o almeno così si ipotizza - perché quel gene (CYP2D6) consentiva la digestione di alcaloidi potentemente tossici prodotti dalle piante che crescevano nel deserto. In sostanza, erano in grado di sopravvivere alla carestia solamente i portatori di un fenotipo estremo per quanto riguarda la capacità di cibarsi di piante selvatiche. La carestia in Etiopia fu legata a uno dei tanti episodi di siccità che hanno caratterizzato la storia di quel paese. Ma, come sappiamo, in un pianeta “sovraccarico” come quello odierno, la siccità sta diventando un serio problema in diverse aree, dal Darfur alla Cina. È perciò lecito chiedersi se il rapido cambiamento climatico moltiplicherà i “colli di bottiglia” in diverse regioni del mondo. Oltre ai problemi immediati che creeranno situazioni del genere (dall’estrema siccità alle ondate di calore e alle alluvioni), ci possiamo attendere anche una maggiore pressione selettiva di tipo darwiniano - questo è l’argomento affrontato da Ary Hoffmann e Carla Sgrò nell’ultimo numero di «Nature». Vi saranno specie che trarranno giovamento dal cambiamento climatico e altre che soccomberanno. Tra gli eventi cui già stiamo assistendo, non ancora direttamente legati all’evoluzione delle specie, vi sono le migrazioni e i cambiamenti nelle abitudini riproduttive (per esempio le date di riproduzione degli uccelli hanno subito mutamenti me-di del 20%). Questi sono fenomeni adattativi di cui alcune specie, come le lucertole, sembrano non essere capaci; pertanto saranno proprio queste specie le prime a scomparire se i meccanismi evolutivi non entreranno in gioco.
A questo quadro già complesso si aggiunge il fatto che i cambiamenti climatici si verificano in un particolare periodo storico, in cui gli habitat naturali di molte specie sono frammentati , limitando così le possibilità di migrazione. Oppure, viceversa, gli spostamenti (come nel caso di pesci e insetti) avvengono involontariamente attraverso mezzi di trasporto come le navi e gli arerei. In ogni caso, le equazioni sviluppate dai ricercatori suggeriscono che se il cambiamento è troppo rapido l’estinzione prevarrà sulla capacità di evoluzione. Questo sarà particolarmente vero per due tipi di organismi: quelli dotati di una lunga vita (per la scarsa velocità del ricambio generazionale) e gli organismi con poca variabilità genetica. Per esempio molte piante infestanti hanno una variabilità nei tempi di fioritura ben superiore agli alberi ad alto fusto, e sono pertanto più capaci di adattamento al mutare delle condizioni ambientali. Questo vuol dire che alcune specie dovranno ricevere maggiore attenzione nei programmi di conservazione ambientale. Una cosa è certa: i politici devono imporre da subito un limite all’urbanizzazione del pianeta, perché uno dei maggiori ostacoli alla preservazione di molte specie è proprio la frammentazione degli habitat portata dalle opere di urbanizzazione.
Paolo Vineis è professore di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra