Luigi Mascilli Migliorini, Il Sole 24 Ore 4/3/2011, 4 marzo 2011
FERMARSI A EBOLI E ARRIVARE A NEW YORK
Oggi, certamente, la terra del Basilikòs, del funzionario bizantino che la reggeva nel nome di un lontano Impero sopravvissuto, a Oriente, alla catastrofe che aveva annichilito l’Occidente latino, non è più da tempo «il mondo serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente» di cui parla Carlo Levi nelle prime righe del suo memorabile Cristo si è fermato a Eboli. Eppure chi potrebbe negare che questa terra che conserva, appunto, nel suo nome le stimmate di un relitto abbandonato dal tempo, della periferia di un centro remoto, non si sia vissuta per secoli come segregata dalla lunga, lunghissima durata nella quale si è costruita la modernità, e da quella più breve e recente, quasi una modernità in parodia, che su di essa ha provato ad affacciarsi con il volto, troppe volte severo fino alla ferocia, dello Stato unitario?
Mentre attraversa un «mare di terra biancastra», monotono e privo di alberi, dove in lontananza, aggrappati a colline stentate, si intravedono paesi dai nomi poco familiari - Irsina, Grottole, Ferrandina - Levi, condannato al confino nell’estate del 1935, si ripete l’esclamazione che Virgilio mette in bocca ad Enea: «humilemque vidimus Italiam», conoscemmo l’umile Italia, l’Italia - ricorderà più tardi - «che si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure».
L’epifania di Matera
Allo sguardo moderno, perché tale è lo sguardo che al primo istante vi posa l’intellettuale torinese che la dittatura ha gettato in quei luoghi così antichi da aver, quasi, perso la dimensione del tempo, la Basilicata si nasconde, cela il volto autentico della sua vita morale e sociale come cela, tra i monti, i suoi paesi e la sua gente. «Matera non si vede»: lasciando da parte un’architettura di regime, la Questura, il Municipio, le Poste, che ripetono in provincia il modello estetico di Piacentini, ricordando, però, fin troppo da vicino le solitudini dell’architettura coloniale, bisogna scendere giù, giù in fondo nel greto della fiumara, del "torrentaccio" perché, quasi come l’epifania di una discesa agli Inferi danteschi, la città si manifesti vera e bellissima anche agli occhi del dottore piemontese, inseguito da bambini che chiedono il chinino per la loro inestinguibile malaria.
È nei mesi che questo sguardo si allena e si fa, progressivamente, più acuto, quasi che - senza forse averlo letto - passi in Carlo Levi la lezione di un dolente figlio di questa terra: «Vedere, vedere! Il paesaggio parla. E non c’è eloquenza che valga la sua», aveva scritto Giustino Fortunato quando gli sembrava che le parole della retorica unitaria si stessero accatastando sulla Basilicata, come sull’intero Mezzogiorno, pregiudicando ogni senso possibile e ogni possibile azione. Sotto dettatura, verrebbe da dire, del padre del meridionalismo Levi apprende la lucidità dell’analisi. Impara a distinguere, e ci restituisce, la stratificazione delle classi sociali, vive e forti pur nei minuscoli cosmi di un paese di poche centinaia di abitanti. Riconosce l’ambigua potenza dei ceti politici, mediatori equivoci tra la miseria della periferia e la forza distante del centro. Rilegge i miti che questo mondo abita e traveste da sempre: oggi l’Africa e l’illusione imperiale, ieri il brigantaggio e la sua disperata resistenza per la quale Levi pare ripetere la sentenza lapidaria che era stata di Fortunato: «Il 1860 fu rivoluzione politica della borghesia, il brigantaggio fu reazione sociale della plebe».
In questa lucidità Fortunato si era, tuttavia, sequestrato, facendone l’alimento di un pessimismo tragico in cui l’Unità nazionale appare la sola, fragile speranza di avvenire. Per Carlo Levi si può dire, al contrario, che la sua analisi dissequestra la Basilicata, la impone alla scena del mondo; le impone la scena di un mondo che, chiusa la tragedia della dittatura e della guerra, si sperimenta in una speranza collettiva di cambiamento. Il Cristo si è fermato a Eboli prepara, dunque, consapevolmente le lotte contadine degli anni Cinquanta, i versi di Rocco Scotellaro e le indagini agronomiche di Manlio Rossi Doria. Strano esito, potrebbe dirsi, del gesto repressivo di una dittatura che si fa strumento di una liberazione; strano gioco del destino che nei recinti di un confino politico coltiva le parole che sveglieranno un mondo rimasto discosto dalla Storia.
E il gioco si ripete: in altro esilio, imposto dalla stessa dittatura e negli stessi anni, non nella remota, solitaria Aliano, ma nella Parigi degli anni Trenta, dove la moveable feast degli intellettuali cosmopoliti tocca anche le esistenze precarie dei fuoriusciti antifascisti, Francesco Saverio Nitti lancia al mondo - quasi fosse una via di mezzo tra il naufrago con la sua lettera nella bottiglia e una precoce Radio Londra - i suoi messaggi di libertà. La casa dove Nitti è nato il 19 luglio del 1868 non è molto diversa dalle abitazioni (le meno deprivate) che Levi scoprirà settant’anni dopo. A vederla ancora oggi, piccola, scura, nella parte più elevata del colle su cui sorge Melfi, essa parla il linguaggio della durezza dei luoghi e della secchezza delle esistenze da cui Francesco Saverio parte per diventare uno dei protagonisti della storia italiana.
L’incantesimo dei contadini
Nitti è, per tutta la prima metà del Novecento, lo Stato. Professore universitario, economista, giornalista, e poi deputato, ministro, presidente del Consiglio, Nitti è quello Stato, quella Storia che la sua terra vive come un riferimento estraneo, ostile. In lui la disperazione di Giustino Fortunato si frantuma nella caparbietà del gesto quotidiano: l’analisi delle ineguali condizioni di sviluppo delle due parti della penisola all’indomani dell’Unità, il disegno di una legislazione speciale per far fronte al declino di Napoli, antica e perduta capitale, e poi l’industria, l’evangelo agitando il quale Nitti immagina di rompere l’incantesimo al quale da troppi secoli soggiacciono tutti quelli per i quali - come i contadini della sua Basilicata - «lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte».
L’esilio, frutto della sua opposizione alla dittatura, pare dover appannare il disegno e, invece, lo amplifica e lo rafforza. L’uditorio, che sempre era stato vasto, ora si dilata assai di più. Incalzato anche dalle necessità della vita materiale, Nitti si obbliga a un’attività instancabile di scrittura sui giornali di mezzo mondo. Spiega la crisi del ’29 agli americani di New York e a quelli di Buenos Aires. Dialoga con Keynes, e poi con Roosevelt sulle ricette da adottare, riprende la critica ai Trattati che avevano concluso la Prima guerra mondiale e avverte, con Thomas Mann, l’angoscia per le conseguenze terribili che si profilano in Germania.
È lontano, congedatosi definitivamente, dalla terra senza storia? All’apparenza sì: mentre scrive dei destini del pianeta, Nitti sembra rassomigliare a quei Lucani «ebrei d’Italia» di cui parla Giustino Fortunato, costretti dalla miseria della loro terra a vagare in cerca di fortuna.
Ma la verità, più sottile e meno appariscente, è un’altra. La spiega Carlo Levi quando il suo sguardo si è fatto, finalmente, penetrante: «Non Roma o Napoli - scrive avendo davanti l’emigrazione e i suoi miti - ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini della Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una». È così, infatti, che lo statista cosmopolita si riconcilia con la sua gente; è così che la casa sul colle di Melfi, sotto il castello di Federico II, può, oggi ancora, apparire al centro del pianeta.
Per un ossimoro antropologico di denso valore l’unico dialogo possibile di una piccola terra, aspra e poco abitata, da cui la Storia ha, forse, fatto le valigie quando si sono perse le tracce dell’ultimo basilikòs o, forse, egli ha perso le tracce dei suoi padroni troppo lontani, è il dialogo con il mondo. Se si ha la forza di fare il primo passo al di là dello spazio del proprio piccolo paese, se si ha la forza di strattonare il tempo immobile, questo tempo comincia a correre veloce e con esso sono gli spazi, non meno velocemente a dilatarsi. Eboli è a un passo, New York a due.