Federico Fubini, Corriere della Sera 03/03/2011, 3 marzo 2011
DALL’AMERICA A VIENNA LE VIE DEL DENARO LIBICO DIVIDONO L’OCCIDENTE —
Tony Blair è tornato. Per la prima volta era stato in Libia nelle vesti di primo ministro di Sua Maestà britannica nel 2004 e aveva offerto a Muammar Gheddafi, disse, «la mano dell’amicizia» . Già allora il Colonnello non era più il «cane pazzo» del Medio Oriente (definizione di Ronald Reagan) ma un «forte partner dell’Occidente» con cui si poteva trattare. Blair lo ha fatto in prima persona quando, appunto, l’estate scorsa è tornata. Stavolta l’ex leader laburista di Londra indossava il cappello di consulente di Jp Morgan, la grande banca americana. Vero: Blair quella volta è stato, eccezionalmente, uno dei tanti. A quel tempo Sir Mark Allen per esempio, la spia dell’MI6 che negoziò il riavvicinamento di Tripoli a Londra, aveva già catturato un bel contratto con la British Petroleum, che in Libia ha investimenti per oltre un miliardo di euro. La baronessa Elizabeth Symons, ex ministro del Foreign Office di Blair, sedeva invece (remunerata) nel Consiglio nazionale per lo Sviluppo della «Grande Jamahiriya Socialista del Popolo Libico» . Ma ugualmente qualcuno forse in questi giorni avrà ripensato a quella seconda visita di Blair sotto la tenda, magari in cerca di lumi. Perché in effetti qualcosa da capire resta: se non sugli investimenti britannici a Tripoli o su quelli di Tripoli in Gran Bretagna, per lo meno su quelli del Colonnello e dei suoi cari negli Stati Uniti. Magari il fatto che Jp Morgan sia uno dei titani di Wall Street non ha niente a che fare con tutto questo, anzi è probabile che non c’entri proprio. Eppure questo lunedì David Cohen, sottosegretario al Tesoro Usa, ha annunciato il congelamento di beni presenti sul suolo americano e riconducibili alla famiglia Gheddafi per oltre 30 miliardi di dollari. Da questa settimana ne sono bloccate sia la disponibilità, sia la distribuzione di cedole. Cohen non ha spiegato come e quando negli Stati Uniti si sia trovato posto (dove?) a una somma del genere. Ma su un punto è stato preciso: la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu approvata due giorni prima «decide» il congelamento non solo dei conti e dei beni della famiglia Gheddafi, ma anche degli investimenti di tutto ciò che somiglia a un fondo sovrano libico. Sembrerà lana caprina, eppure è una (mancata) distinzione vitale. Il Consiglio di sicurezza sanziona infatti il blocco di tutti i patrimoni «direttamente o indirettamente» nella disponibilità del «cane» ritornato «pazzo» . Ma che dire allora della Lybian Investment Authority (Lia)? Quel veicolo gestisce fra i 60 e gli 80 miliardi di dollari del primo Paese per riserve petrolifere del continente africano. E il fatto che sia «indirettamente controllato» da Gheddafi, secondo gli americani, fa sì che i suoi investimenti vadano congelati perché così detta l’Onu. Il problema è che Lia, un tipico fondo sovrano arabo, ha quote praticamente ovunque e anche in Unicredit, Finmeccanica o nell’Eni. Fra alleati occidentali ci sarà ancora da discutere. Di certo, a Londra il cancelliere dello Scacchiere George Osborne sembra propendere per la lettura dell’amministrazione Obama. Domenica scorsa all’ora del tè Osborne ha emesso «The Lybia Order 2011» , un decreto con cui minaccia sanzioni nei confronti di chi non congeli i beni dei Gheddafi. Nel giro di poche ore Pearson, editore del Financial Times e della Penguin, ha consultato gli avvocati e si è adeguato: via al congelamento del 3,2%del suo capitale oggi in mano alla Lia. «Non scegliamo i nostri azionisti — ha osservato la capo azienda Marjorie Scardino — sono loro che scelgono noi» . Ma Charles Goldsmith, portavoce del gruppo, evita attentamente di affermare che la risoluzione dell’Onu e l’Order di Osborne hanno obbligato Pearson ad agire. Il testo del Consiglio di sicurezza e la decisione del Consiglio dei ministri Ue che la applica restano infatti capolavori di ambiguità. Per alcuni i conti esteri di Gheddafi e le partecipazioni delle società di Stato libico restano patrimoni ben distinti. Osserva una fonte di Bruxelles vicina al dossier: «Chi può garantire oggi che il colonnello abbia davvero il controllo del suo fondo sovrano?» . L’impressione è che alcuni Paesi, fra i quali l’Italia, sopravvivano benissimo senza bloccare le quote della Lia o della banca centrale di Tripoli nelle loro società quotate. Non è un caso se resta svincolato anche in Gran Bretagna un capitale libico pari a circa dieci volte quello, da circa un miliardo di sterline, che a Londra è già stato bloccato. Altrove poi si pratica soprattutto l’arte del beau geste, congelando solo ciò non fa poi troppi danni. Ma anche certe piccole mosse portano con sé scoperte interessanti: in provincia di Malaga il Colonnello da vent’anni ha terre al sole per 6.500 ettari, da ieri sequestrati dal governo di Madrid. In Austria le banche ospitano nei loro conti anonimi un patrimonio libico da 1,2 miliardi: anche quello solo entrato da ieri, dopo chissà quanti anni, nel mirino del governo. Ma il vero capolavoro ancora una volta è indiscutibilmente svizzero. Dopo lo sdegnato sequestro dei beni dell’egiziano Hosni Mubarak il giorno dopo la fine della sua trentennale dittatura, il 24 febbraio il governo di Berna ha rassicurato il mondo. Non ci sarebbero conti di Gheddafi nella Confederazione, ha dichiarato il ministero degli Esteri. Nel frattempo, il Consiglio federale ha annunciato la decisione di congelare eventuali beni svizzeri di Gheddafi e dei suoi. Vero è che ce ne saranno ben pochi, perché il Colonnello svuotò i suoi forzieri cantonali quando nel 2008 gli arrestarono il figlio Hannibal a Ginevra perché picchiava la moglie in un albergo. Ma l’altro figlio Saif, quello dei fiumi di sangue annunciati in diretta tivù, fino a dieci giorni fa era un Global Young Leader (pagante) del World Economic Forum di Davos. Forse perché, in effetti, solo questo prestigioso club impegnato a «migliorare lo stato del mondo» ha la risposta alla domanda del momento: è più cinico tenere le quote libiche, o denunciarle solo ora?
Federico Fubini