MATTIA FELTRI, La Stampa 3/3/2011, 3 marzo 2011
Bandiere e fazzoletti l’aula si colora di verde - Se davvero il federalismo municipale era la cima Coppi, cioè la tappa più dura, secondo il gergo del giro d’Italia riciclato dai leghisti per dare un po’ di pathos alla faccenda, si è scollinato senza ingobbirsi
Bandiere e fazzoletti l’aula si colora di verde - Se davvero il federalismo municipale era la cima Coppi, cioè la tappa più dura, secondo il gergo del giro d’Italia riciclato dai leghisti per dare un po’ di pathos alla faccenda, si è scollinato senza ingobbirsi. La Camera dei deputati ha votato la riforma e la fiducia con il margine atteso, cioè ampio, e senza l’ombra del colpo di scena. C’era stato giusto Gianfranco Micciché, zanzara di professione e leader di Forza del Sud, che aveva provato a metterla giù dura per una questione di energie rinnovabili: ma dopo un pomeriggio di contatti frenetici, come li ha definiti lo stesso Micciché, e nonostante l’aggettivo sia così poco applicabile agli attuali tempi legislativi, si sono avute le garanzie pretese. Domani, oggi per chi legge, «sarà tutto sistemato». Così l’aula ha potuto mettere in scena il logoro rito delle dichiarazioni di voto, insaporito, si fa per dire, da qualche raro pugno sul banco per dare l’idea di una passione non del tutto sopita. Semmai faceva un poco impressione che chiunque, quelli favorevoli e quelli contrari, si buttassero addirittura vestiti nel mare del federalismo, a sguazzarci come pesci, neanche fossero venuti su tutti a pane e Carlo Cattaneo. Uno a spiegare perché il federalismo, quello vero, non si fa così (Pierferdinando Casini), un altro a spiegare perché il federalismo, quello vero, loro lo avrebbero votato (Pierluigi Bersani, comunque il meno moritignaccolo di un aula in catalessi), ma mai e poi mai voteranno questa sottospecie di riforma, dozzinale e traditrice. E non era meno curioso ascoltare le sentite motivazioni per le quali Silvano Moffa - ex del Pdl, ex finiano, ora Responsabile - decideva per sé e annunciava per il gruppo l’adesione alla legge. Oppure osservare Luca Barbareschi - bello, statuario, eppure per sempre ferito nell’immagine dall’appellativo di “pagliaccio” che gli ha rifilato Gianfranco Fini - mentre transitava sotto al banco della presidenza per concedere la fiducia a Silvio Berlusconi. Ma chi si aspettava qualche accento epico, un’aggettivazione in grado di sfidare quella risorgimentale, un gesto degno di essere immortalato per la commozione dei posteri, non ha avuto soddisfazione. Umberto Bossi e Roberto Calderoli si sono seduti al banco del governo mentre una seconda fila dipietrista definiva «con le stampelle» il federalismo approntato. Poi Bossi si è accomodato in mezzo ai suoi, festeggiato con molta riverenza, intanto che la schermaglia proseguiva su argomenti non frizzantissimi: Bersani contestava il quarantaquattresimo ricorso alla fiducia, Massimo Corsaro (Pdl) replicava che il Pd si stava affidando al terzo segretario dall’inizio della legislatura (Walter Veltroni e Dario Franceschini prima di Bersani). Marco Reguzzoni, il capogruppo della Lega, ha buttato lì qualcosa come «giornata storica», «il primo grande passo di una battaglia ventennale», ma nella distrazione e nel brusio globale; un po’ di energia in più è stata spesa, da una parte e dell’altra, nella vicendevole accusa di aver inserito turpi patrimoniali. L’aula si è dunquepreparata al voto con lo spirito dell’ultimo giorno di scuola: dagli scranni della maggioranza si è di molto rumoreggiato, ma in clima da 3^ C, per i numerosi raccomandati ai quali è stato concesso di votare subito, senza seguire l’ordine stabilito. Fra di loro c’era però proprio Bossi, e allora il drappello leghista si è eccitato, l’ovazione è stata quasi convinta e non meno tambureggiante quando è toccato al premier: Roberto Maroni gli ha allungato una pochette verde, Berlusconi se l’è messa al taschino della giacca e si è diretto verso gli eletti padani, tutti contenti per un così affettuoso gesto e una così gradita visita. Berlusconi non si è trattenuto dal dar prova di umorismo, e anche lì i leghisti hanno dimostrato di apprezzare. Era il modo di ammazzare il tempo nell’attesa che Antonio Leone (vicepresidente che aveva preso il posto di Fini nella conduzione dei lavori) annunciasse lo scontato trionfo: 314 a 291, cioè tanto a poco. I leghisti sono stati bravi, mancando l’epica, a far mancare il teatrino: nessuna coreografia da stadio, nessun prosecco, soltanto una rivendicazione territoriale con uno sventolìo di bandiere della Lega Lombarda, del Sole delle Alpi, delle regioni di provenienza di alcuni deputati. Finta l’ira del presidente Leone. Finta la sospensione della seduta. Già più veri, si direbbe, i baci e gli abbracci fra Bossi e Berlusconi.