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 2011  febbraio 28 Lunedì calendario

LA PARABOLA DI MAURO MASI

Mauro Masi non ha lasciato tracce alla Banca d’Italia. Forse non ne lascerà nemmeno alla Rai. Si definisce un civil servant, ma non è per questo che, due anni fa, è stato messo sulla poltrona più importante di Viale Mazzini. Sostiene: «La cosa che mi dà più fastidio come manager è quando si dice che sono un esecutore di decisioni prese da altri perché non è così». Le sue telefonate intercettate e non, però, lo smentiscono. Basta ascoltarle.
Mauro Masi, 58 anni ad agosto, è il direttore generale della televisione pubblica scelto da Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, e proprietario del più grande gruppo televisivo privato. Mauro Masi era il segretario generale di Palazzo Chigi. Lo è stato per nove governi e sei presidenti del Consiglio. Ora è in aspettativa. Ma è con il Cavaliere che Mauro Masi smette, dopo quasi un ventennio, di essere lo Zelig degli alti burocrati e sceglie da che parte stare.
L’uomo della svolta nella carriera, fino allora assai grigia, di Masi si chiama Lamberto Dini. Si incontrano alla Banca d’Italia. Dini è il direttore generale, Masi lavora alla segreteria particolare del Direttorio. Per chi conosce le austere stanze di Palazzo Koch sa che quello non è proprio l’ufficio dei primi della classe. «Ci va chi non ha né arte né parte», dicono, con la perfidia tipica di chi sente di appartenere ad un’élite, quelli del prestigioso Servizio studi o della Vigilanza. Masi, nella segreteria, si occupa di Dini e impara lì a "navigare", colpito dalla sindrome di Leonard Zelig il trasformista del bellissimo film di Woody Allen. Aderisce fino in fondo alla causa del capo pro tempore. In realtà pensa a se stesso. Camaleontico. Ha una laurea in giurisprudenza, master alla Bocconi e a Washington. Segue Dini prima al Tesoro e poi, nel 1995, a Palazzo Chigi come responsabile dell’ufficio stampa e portavoce del presidente del Consiglio. Non tornerà più alla Banca d’Italia anche se esserci stato gli aprirà porte e gli darà prestigio. Perché quella è la nostra Ena dove si impara ad essere civil servant.
Masi, già allora, va in giro in gessato, mattina, pomeriggio e sera. Si sente elegante, lui ex parà con tanto pare di Folgore tatuata sul braccio. Baffi curati, basette lunghe. Capelli tinti. Abbronzato. E molto depilato, si dice. «Il bel Cecè», secondo Giampaolo Pansa.
Nel ‘96 diventa il capo del Dipartimento per l’editoria di Palazzo Chigi. Da lì dipendono i tanti finanziamenti ai mass media italiani. Masi "conquista" una buona stampa. Anche se ama soprattutto celebrarsi da solo. Il suo curriculum sul sito del governo, quando era il segretario di Palazzo Chigi, si componeva di ben sei pagine, comprensive degli articoli scritti per vari giornali. Berlusconi, a cui di certo non fa difetto il super ego, si è fermato a due. E allora per capire Masi, oltre ad affidarsi alle telefonate, vale la pena leggere qualche passo dell’autopresentazione. Per esempio dove racconta della sua esperienza alla Siae. Ecco: «Dal maggio del 1999 a giugno 2003 è stato commissario straordinario della Siae: da un deficit di 28 milioni di euro, riporta un attivo la società con un utile di 5 milioni di euro. I risultati li ottiene non solo con un contenimento drastico dei costi di gestione, ma anche procurando alla Siae un nuovo importante accordo con il ministero delle Finanze (con la Finanziaria ‘99 l’abolizione dell’imposta sugli spettacoli che la Siae riscuoteva per conto dello Stato dal 1921 aveva più che dimezzato gli introiti della società), con l’Enpals e l’Inps per il recupero dei contributi previdenziali per i lavoratori dello spettacolo, con l’Unidim (l’unione che raggruppa le maggiori case di distribuzione cinematografica), con la Rai per la riscossione dei canoni speciali dei pubblici esercizi». Risultati di cui evidentemente Masi è davvero molto orgoglioso. Applausi. Un’autoagiografia manageriale. Alla Rai ha promesso un bilancio in utile (circa 28 milioni, ha detto) già da quest’anno. Il 2010, per ora, si è chiuso con un rosso di 118 milioni di euro. E il piano industriale rimane fumoso.
La Rai, però, è ancora lontana quando Mauro Masi nel 2006 incontra a Palazzo Chigi Massimo D’Alema, allora vicepresidente del Consiglio, che lo nomina suo capo di gabinetto. «Palindromo» lo definisce Prima comunicazione: figura retorica leggibile sia da sinistra verso destra sia viceversa. Ma è solo un effetto ottico. Almeno una volta alla settimana, Masi varca il portone di Palazzo Grazioli. Va a rapporto da Berlusconi all’epoca capo dell’opposizione. D’Alema non ne sapeva nulla. Di più: pensava che Masi fosse un civil servant vicino al centro sinistra, un uomo molto affidabile. Pensava. Il camaleontismo del futuro direttore della Rai raggiunge la vetta più alta. Masi si spoglia del tradizionale neutralismo tipico degli alti burocrati, degli uomini della Banca d’Italia, e forse per nascondere le scappatelle a Palazzo Graziosi mostra una vera adesione al governo guidato da Prodi. «Spregiudicato e intelligente», lo ricorda chi allora lavorava a Palazzo Chigi. Il potere ormai seduce Masi almeno quanto le donne. Il potere e anche i potenti, va aggiunto.
La Rai è il sogno di Mauro Masi. Chi lo conosce dice che lo abbia coltivato da anni. In silenzio, ma con determinazione. E il sogno glielo realizza il Cavaliere Silvio Berlusconi: potere e starlette. La Rai. Masi riesce anche a togliersi la camicia bianca d’ordinanza e la cravatta, indossando con coraggio tshirt nere sotto la giacca, a volte sotto un gessato, oppure abbinate a pantaloni rosso mattone.
Dall’aprile del 2009 è il direttore generale della tv di Stato. Ma governa senza alleati. Quasi contro tutti. Nel consiglio di amministrazione, ormai, non lo ama nessuno. Neanche più a destra. Le ultime critiche sul caso della satira contro il Cavaliere a Sanremo, del consigliere Antonio Verro, amico di Berlusconi, sono state durissime. Il presidente Paolo Garimberti ha tentato all’inizio del mandato di stabilire un rapporto cooperativo, poi ha desistito. Con la sinistra siamo alle querele.
Mauro Masi è l’unico direttore generale della Rai sfiduciato dai giornalisti del servizio pubblico. C’è stato un plebiscito contro di lui: su 1.878 aventi diritto hanno votato in 1.438, 1.314 contro e solo 77 a favore. Lui, d’altra parte, ama Augusto Minzolini, l’ha coperto sulla vicenda delle note spese, e lo considera «un innovatore». Ma quando Giovanni Minoli gli ha chiesto in un’intervista pubblica quali fossero le innovazioni apportate dal direttore del Tg1, Masi ha più o meno balbettato: «Segua il Tg1...». Minoli allora gli ha chiesto pregi e difetti di Berlusconi: «Un uomo di grande carisma». E i difetti? «Il carisma si porta dietro annessi e connessi».
L’eloquio, insomma, non è il suo forte. E non solo per quella cadenza molto laziale. Quando il 27 gennaio scorso ha telefonato in diretta a Michele Santoro all’inizio della puntata di "Annozero" per prendere le distanze preventive dal taglio della trasmissione sul Rubygate, il direttore si è inceppato: «Ritiro me stesso e l’azienda...». Alla fine è stato zittito in malo modo da Santoro. Meglio, comunque, di quando, l’anno scorso, lo stesso Santoro lo mandò a quel Paese attraverso il video. Masi sospese il giornalista e andò a spiegare la sue ragioni da Bruno Vespa a "Porta a Porta". Riindossò il gessato, la camicia bianca e la cravatta. Ma fece comunque una pessima figura. Anche di stile. Come quella che ha rimediato andando a telefonare in diretta a Simona Ventura per dirle quanto era bella "L’isola dei famosi". Tant’è.
Eppure pare che la strategia telefonica di Masi abbia anche uno spin doctor: si chiama Guido Paglia, responsabile delle relazioni esterne della Rai. Paglia era un fedelissimo di Gianfranco Fini. A dividerli è stato il "caso Tulliani". Ora Paglia è il braccio destro di Masi al quale sarebbe stato imposto dagli ex colonnelli di An rimasti nel Pdl, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli, Ignazio La Russa. Ma, va detto, prima della frattura con il </n>presidente della Camera, Paglia non </n>aveva affatto buoni rapporti con Ma</n>si. Che ora invece se lo porta a tutte le </n>riunioni con i suoi vice, Lorenza Lei, </n>Antonio Marano, Giancarlo Leone e </n>Gianfranco Comanducci. Quasi fos</n>se il quinto vicedirettore di Viale </n>Mazzini.
Asserragliato nel suo ufficio al set</n>timo piano, Masi, ormai, pensa a </n>un’exit strategy. Pensa che la loco</n>motiva giusta alla quale aggrapparsi </n>possa essere quella delle prossime </n>nomine pubbliche. L’uomo è ambi</n>zioso, permaloso, e anche presun</n>tuoso, ma probabilmente sa pure </n>che il ministro dell’Economia, Giu</n>lio Tremonti, non gli affiderà mai la </n>guida di uno dei colossi che portano </n>ricchi dividendi. Ecco perché Mau</n>ro Masi può immaginare una presi</n>denza senza deleghe come quella di </n>Terna oppure una vicepresidenza </n>(che però non è ancora prevista) del</n>l’Eni. Il suo tempo alla Rai sembra </n>scaduto. Si sta preparando Lorenza </n>Lei. Che ha un fortissimo legame con </n>il cardinale Tarcisio Bertone, segre</n>tario di Stato Vaticano. Oltretevere, </n>ma non solo, si sono accorti che non </n>era mai successo nella storia della </n>Rai che non vi fosse una posizione </n>apicale riconducibile in senso lato al </n>Vaticano, ad eccezione di Fabrizio </n>Del Noce, capo della fiction. È un </n>vulnus che va colmato. Nell’interes</n>se del Cavaliere, questa volta come </n>capo di un governo traballante e non </n>come padrone dell’azienda privata </n>concorrente della Rai.