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 2011  febbraio 28 Lunedì calendario

PARMALAT: È CON BANCHE E FONDI L’ULTIMA BATTAGLIA DEL RISANATORE


I fondi contro Bondi. E, in mezzo, le banche tricolori –IntesaSanpaolo in testa – alla ricerca di una soluzione (la più industriale e italiana possibile) per dare a Parmalat una volta per tutte un assetto azionario più stabile. La guerra di Collecchio, l’ennesima, sta per entrare nel vivo. Entro due settimane saranno presentate le liste di candidati per il nuovo consiglio d’amministrazione. Poi, con ogni probabilità il 12 aprile, arriverà il redde rationem in assemblea. Un appuntamento ad altissima tensione dove tre investitori istituzionali, Skagen, Zenit e MacKenzie, forti del 15,3% del capitale dovrebbero presentarsi con un loro elenco di candidati per il consiglio in cui, per la prima volta dal crac di Collecchio, non ci sarà (salvo improbabili sorprese) il nome di chi ha salvato l’azienda dal crac dei Tanzi. La partita a tre sembra in apparenza segnata. Nelle ultime assemblee di Parmalat, l’unica public company di Piazza Affari assieme a Prysmian, erano presenti al massimo il 25% dei soci. E il "pacchettone" azionario dei fondi ribelli dovrebbe quindi metterli al riparo da sorprese. Bondi – convinto che i suoi rivali vogliano solo mettere le mani sugli 1,4 miliardi in cassa – ha però la pelle dura. E non pare intenzionato a farsi da parte senza combattere. Il primo colpo, d’antipasto, l’ha tirato qualche giorno fa riuscendo a far inserire nel Milleproroghe un emendamento che blinda il tesoro di Collecchio per legge. E in queste ore sta valutando qual è la prossima mossa nella delicatissima sfida a scacchi che segnerà il futuro del gruppo.
MacKenzie & C., da parte loro, hanno già messo le carte in tavola. Il loro advisor, pur restio ad apparire in prima fila, è Lazard. Il loro programma è stato esplicitato nero su bianco: Bondi è stato bravissimo a recuperare soldi con le cause. Ma sul piano industriale ha fatto disastri, tenendosi stretti i soldi quando ci sono state tante opportunità di acquisizioni.
Parmalat – dicono – deve aprire una nuova fase. E a farlo sarà un cda con l’ex ministro Rainer Masera presidente, l’ex manager di Swedish Match Massimo Rossi come ad a tempo in attesa di trovare un numero uno definitivo e un consiglio con Andrea Guerra – Luxottica, tentato secondo alcuni di trasferirsi a Collecchio – Vittorio Mincato, Carlo Salvatori, Enrico Salza e qualche manager di settore come Maurizio Manca, l’uomo che ha ceduto Galbani a Lactalis.
Il loro piano – a parole – è semplice: costituire un comitato strategico che individui da subito acquisizioni appetibili per Parmalat. «Nessuno – assicurano – vuol mettere le mani sulla cassa». E su questa piattaforma andranno a cercare consenso in assemblea, tentando specialmente di agganciare Blackrock, titolare di una quota vicina al 7%.
Bondi, conoscendolo, non crede a una parola di quello che dicono i fondi. A testimonianza ricorda spesso che il numero uno di MacKenzie Cundill David Tyler – capofila della cordata con una quota del 7,6% – solo un anno fa diceva «di voler solo la restituzione della cassa e non acquisizioni o fusioni». Non solo: il patto a tre scade un secondo dopo la fine dell’assemblea svincolando i partecipanti da ogni obbligo e lasciando il nuovo consiglio con le spalle scoperte. E il fatto che in mesi di lavoro non si sia riuscito a trovare un ad con la "A" maiuscola – dicono a Collecchio – non è un indizio di grande solidità.
La linea di difesa di Bondi, però non pare per ora solidissima. Il manager aretino, ad esempio, non fa troppo affidamento sull’effetto milleproroghe. Certo l’arrivo a sorpresa dell’emendamento che ha affossato il titolo in Borsa, fortissimamente voluto da Gianni Letta, è stato un gran colpo "politico". Mettere le mani sulla cassa di Parmalat però non è una mission impossible. Basta varare un buy back o cambiare lo statuto e far partire il recesso.
La critica che il numero uno di Collecchio non manda giù è quella sulle mancate acquisizioni. «Val più un ducato in casa che dieci spesi male», ripete spesso citando il suo conterraneo Francesco Guicciardini. Non solo: la semplificazione societaria degli ultimi anni portata avanti con perizia dal direttore finanziario Pier Luigi De Angelis ha liberato dal debito tutte le controllate oltrefrontiera. Una mossa che dal 2011 porterà l’utile della capogruppo al livello di quello consolidato (oggi è inferiore quasi del 40%) consentendo di aumentare di molto il dividendo per i soci senza bisogno di superacquisizioni.
Il timore di Bondi – lo stesso dei sindacati di Collecchio – è che la vittoria dei fondi faccia da battistrada per lo spezzatino di Parmalat. La società ha moltissimi pretendenti per il suo business internazionale e uno storico corteggiatore (guarda caso la francese Lactalis, per molti vicina a Lazard) per l’intera azienda. L’ad di Collecchio ha affidato un mandato esplorativo a Deutsche Bank e Merrill Lynch per capire se ci sono i numeri per sfidare i fondi in assemblea. Ma senza certezze matematiche su una vittoria è difficile che spunti la lista di Bondi. Tra i fondi e il manager aretino si sta però muovendo sottotraccia il partito del compromesso. A guidarlo IntesaSanpaolo (socia al 2,4%), Mediobanca (all’1,9%) e altri azionisti minori. Il loro obiettivo: trovare un socio industriale – negli ultimi tempi sono tornate le voci su una possibile intesa con Granarolo ma si parla anche di altri imprenditori – disposto e entrare nel capitale di Collecchio unendo le forze per dare un assetto definitivo e più stabile al gruppo, salvaguardando l’italianità in un settore delicato per il Paese come quello agroalimentare. L’idea sarebbe quella di lasciare a Bondi il ruolo di presidente ma di affiancarlo con un management operativo con deleghe forti pronto a far partire le acquisizioni senza dilapidare il tesoro della società. Provando a far confluire anche i ribelli su un’ipotesi di questo tipo. Una soluzione che potrebbe andare bene anche ai sindacati. Ma che presenta ancora qualche capitolo da limare. I fondi, certi di aver la vittoria in tasca, paiono destinati a tirar dritto. Certi che Bondi, «vittima del suo carattere» dicono fonti vicini ai tre investitori, non si acconsentirebbe di un ruolo da presidente senza poteri. Resta da vedere se la politica proverà un’altra volta a metterci lo zampino. Il settore agroalimentare è una delle ultime realtà industriali concrete di questo paese. E Parmalat è una delle sue punte di diamante. Vederla finire a pezzi non sarebbe un bel finale dopo il crac dei Tanzi e finirebbe per lasciare in eredità pesanti problemi occupazionali.