MICHELE SMARGIASSI , la Repubblica 1/3/2011, 1 marzo 2011
GLI INTEGRATI
Allah non surclassa Gesù. I figli degli immigrati musulmani (ma anche di quelli ortodossi o protestanti o induisti) invocano il loro dio più o meno con lo stesso ardore dei loro coetanei italiani. Anzi: più tempo passano assieme a loro, più la devozione si attenua. Basta una sola generazione, basta saltare dai padri ai figli per veder svanire uno dei fantasmi più inquietanti della società multietnica: la "ri-islamizzazione", l´integralismo di ritorno, la "religiosità reattiva" che chiuderebbe ogni comunità migrante nel recinto dei propri dogmi, armata e aggressiva verso quelli altrui. Quel che i sociologi Marzio Barbagli e Camille Schmoll hanno capito e spiegano nella loro inchiesta su "La generazione dopo" (in uscita per Il Mulino) è proprio l´inverso: che l´integrazione è la medicina dell´integralismo, che solo una società non escludente dà la garanzia di non allevarsi in seno nuclei di alieni religiosi irriducibili.
Un´ovvietà? Per nulla. «Essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente "diversi", in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro»: questa severa profezia del cardinale Giacomo Biffi, allora arcivescovo di Bologna, ha già dieci anni. All´epoca, fu accompagnata dalla proposta di selezionare i flussi di ingresso in Italia sulla base delle credenze religiose ritenute «più integrabili». E fu seguita da una pubblicistica pronta a dimostrare che ogni concessione alla pratica delle religioni "incompatibili" è un pericoloso incoraggiamento all´isolazionismo integralista.
un favore fatto a «un nemico che le moschee le trasforma in caserme [...] e obbedisce ciecamente all´imam», così Oriana Fallaci nel 2005. Invece, dati alla mano, neanche i disciplinati scolaretti musulmani di tredici anni sembrano tanto disposti all´obbedienza cieca verso i loro sacerdoti. L´obbligo di pregare tutti i giorni, uno dei cinque pilastri dell´Islam, è rispettato da meno di un figlio di immigrati marocchini su due; se poi quel figlio è nato in Italia, la sua propensione alla preghiera scende ulteriormente, al 42%. Non c´è molta differenza rispetto ai suoi coetanei italiani figli di italiani, tra i quali solo il 39% prega ogni domenica come prescritto dal catechismo cattolico.
La ricerca di Barbagli e Schmoll sulle abitudini religiose della "seconda generazione" di immigrati si basa su una raccolta di dati compiuta tra quasi quattromila studenti delle scuole medie dell´Emilia Romagna, regione priva di forti tensioni interetniche: e questo ovviamente dà conto dei risultati incoraggianti, ma ci spiega per l´appunto cosa può succedere quando il contesto di accoglienza dei nuovi venuti non è conflittuale. Succede che nel giro di una generazione, perfino prima di quanto la sociologia delle migrazioni ammetta, le differenze sul piano dei comportamenti religiosi si smussano. E non solo quelle. Se tre quarti dei ragazzi arrivati in Italia coi genitori da meno di nove anni comprendono bene l´italiano, se perfino un terzo tra quelli arrivati solo da un paio d´anni preferiscono già l´italiano alla lingua madre, un dato che non ci si aspetterebbe è che un ragazzino su tre tra quelli nati in Italia da genitori stranieri dichiari di "sentirsi italiano", pur non essendolo affatto per la nostra legge. Del resto la relazione stretta tra integrazione e devozione è chiara: i ragazzini immigrati che parlano italiano perfino coi i fratelli sono anche quelli che pregano di meno.
L´integrazione, la faranno dunque i bambini? Non è un interrogativo nuovo e la risposta non è scontata. Il primo a porselo, ricordano i ricercatori, fu un giornalista anarchico americano di nome Hutchins Hapgood, ancora nel 1902, che negli «occhi malinconici» dei figli degli immigrati ebrei vedeva la contraddizione tra «speranza e un´eccitazione senza precedenti» e «dubbio, confusione, sfiducia di sé». La stessa espressione "immigrati di seconda generazione", coniata un secolo fa, è un ossimoro sociologico («non puoi essere nato in un paese e allo stesso tempo esservi immigrato»), e tradisce l´incertezza, e anche il sospetto, con cui le società "ospitanti" considerano da sempre questa strana generazione di mezzo. Tanto che gli studiosi hanno spaccato il capello in quattro distinguendo la "seconda generazione" vera e propria (i figli nati nella nuova patria) dalla "generazione uno e mezzo" (e anche 1,25, 1,75...) secondo il tempo trascorso nel paese d´origine prima di immigrare. Per scoprire, però, alla fine, che c´è una relazione diretta fra la durata dell´"esposizione" di un ragazzino al nuovo ambiente sociale e la sua voglia e capacità di integrarsi in esso.
L´attenuarsi della fedeltà formale ai precetti della religione dei genitori è un eccellente indicatore di quella progressione. Non perché gli immigrati, alla fine, perdano la fede o addirittura si convertano: non è così, i figli di musulmani tendono a restare musulmani anche da noi (in Francia, solo il 7% ha abbandonato l´Islam). Non sono le identità di fede, ma i comportamenti devoti a cambiare, ad attenuarsi, somigliando di più per intensità e frequenza a quelli vigenti nella società d´arrivo. Se 68 ragazzini italiani su cento pregano spesso (alla domenica o tutti in giorni), i loro coetanei turchi lo fanno nel 63% dei casi, i tunisini nel 70, i marocchini nel 75. Dall´altro capo della scala, tra i non praticanti, a volte il rapporto si ribalta: 21 turchi su cento non pregano mai, tra gli italiani solo 15. E la religione islamica, tra tutte quelle dei nuovi venuti, non sembra neppure essere quella più "resistente" alla secolarizzazione: i ragazzini ghanesi devoti sono l´89 per cento, i filippini cattolici l´81, suppergiù alla pari con i musulmani più convinti, i pakistani (84), ma ben di più dei musulmani albanesi (60%). Il livellamento delle pratiche devote non equivale automaticamente a un avvicinamento dei valori, è vero: ma può esserne una buona spia.
E la "etnicità reattiva", allora? Lo spettro che agitò i francesi di fronte alle rivolte delle banlieues, fitte di casseur nordafricani nati in Francia? Certo, la forte coesione religiosa (con le "tre R" che offre: rifugio, rispetto, risorse) può essere ancora un potente richiamo in situazioni di tensione sociale, «ma in una società equilibrata e accogliente», spiega Barbagli, «riguarda più che altro percorsi di devianza individuale, magari pericolosi come quelli che hanno prodotto gli attentatori del metrò di Londra o della stazione di Madrid, ma non fenomeni di massa». L´immigrazione, dunque, non è più una "esperienza teologizzante". Neppure la marginalità economica dei genitori, dicono i raffronti dei due ricercatori, sembra avere alcuna influenza sull´intensità della devozione nei figli. Può invece influire la segregazione di quelle pratiche nel chiuso della casa, con il conseguente isolamento del ragazzino dai suoi pari. Costruire una moschea non farà dunque crescere il tasso di integralismo nelle nuove generazioni di immigrati. Vietarla, forse sì.