DOMENICO QUIRICO, La Stampa 2/3/2011, 2 marzo 2011
Una marea di disperati inonda la Tunisia - Da lontano sono solo un rumore: un sospiro profondo che tonfa come il suono di una cascata e cresce metro dopo metro
Una marea di disperati inonda la Tunisia - Da lontano sono solo un rumore: un sospiro profondo che tonfa come il suono di una cascata e cresce metro dopo metro. Poi, superate una dopo l’altra le garitte, le sbarre, i muri del confine tunisino, avvicinandosi alla barriera libica, li vedi, diventano un segno scuro, una linea in frenetico bollire che un cancello dallo sbarazzino colore azzurro taglia come un rasoio. Su quel serpeggiamento convulso volano, partendo dalla zona tunisina, strani oggetti chiari, a decine, a centinaia, come in una battaglia di sagra paesana, con ellissi che vengono inghiottite subito dallo scuro grumo che striscia dell’altra parte. Ecco, giunti dove la Tunisia finisce, puoi capire: quel fiume color metallo, spumeggiante, sono uomini, a migliaia. Sono i fuggiaschi, egiziani e di altri Paesi, che cercano freneticamente di lasciare il paradiso di Gheddafi, tiranno coriaceo che non si riesce a cacciare. Vogliono solo agguantare la sicurezza della Tunisia e poi tornare a casa. I libici, non li lasciano gocciolare via via che si presentano al confine: li bloccano e li aggruppano, senza cibo e assistenza, e poi li fanno marciare verso la frontiera come un gigantesco e inerme esercito invasore. E qui restano di nuovo, schiacciati contro il muro e il cancello, premuti da dietro, ferocemente da altre migliaia di sventurati. Invano scoppiano di una energia forsennata, animalesca, urlando la loro disperazione, invocando il diritto di passare. Dall’altra parte, inorriditi e impotenti, soldati e volontari lanciano in continuazione bottiglie di acqua e pagnotte, come offerte a questo drago umano, sempre più mostruoso perché si plachi e attenda di essere disciplinato e messo al riparo. Invano. La fatica, la paura ha consumato loro la pelle del viso come acido, fanno massa comune con i loro sacchi, le loro valige, le coperte, i resti del naufragio. Davanti a questo cancello la loro vita per ore è spogliata di tutto, abitudini, ricordi, speranza, è ridotta alla spoglia semplicità di percorrere quei pochi metri che la separano dall’altra parte. Settantacinquemila sono già passati a questa forca infernale, altre decine di migliaia sono attesi; al ritmo di mille l’ora, 14 mila al giorno. Ma il nervosismo cresce, lievita con i numeri, i soldati tunisini spediti in gran fretta alla frontiera, ieri sparavano ormai in aria per disciplinare i sussulti paurosi della marea, per impedire che rivoli sempre più fitti debordassero nel deserto, pianura benedetta da rari arbusti, che estende infinito ogni suo raggio. Sono apparsi, triste segnale, nelle loro mani i bastoni per disciplinare questo gregge. È gente che ha marciato per ore con la paura nelle reni, dei soldati di Gheddafi, dei banditi, della guerra, che ha passato con il cuore in gola innumerevoli controlli, sfiorato città dove ci si uccide per ragioni a loro sconosciute. Con una energia che nulla avendo potuto spezzare, è fatta selvaggia, come quello che aveva superato. Sono terribili gli occhi di chi fugge. È lì, così sembra, che si rifugia tutta la loro anima. «La situazione a Ras Al Jedir sta raggiungendo il punto di rottura» ha annunciato l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. I burocrati che intruppano le emergenze umanitarie e pensano di risolverle con una circolare osannante ( «abbiamo spedito dieci tonnellate di biscotto energetici, montate duemila tende, consegnato 150 mila dollari alla esangue mezzaluna rossa tunisina») sono ottimisti: il punto di rottura è già superato su questa frontiera. Ieri a metà giornata su queste cenciose colonne smarrite bloccati ti aspettavi che nevicasse fuoco come sulle città maledette della Bibbia. Non c’è più tempo di parlare con chi arriva, come i primi giorni, stanno diventando solo numeri che fanno paura. Eppure non c’è punto della loro memoria che non sia dolente, che non abbia un livido antico e recente, una vecchia contusione, un dolore sordo da raccontare, una cicatrice, una lividura inferta da altri uomini. Non vogliono, ostinatamente, andare nelle tendopoli che stanno nascendo freneticamente attorno alla frontiera, hanno paura che sia la via che li condanna a diventare profughi permanenti, per settimane, mesi, anni. Sanno bene che la nostra carità invecchia prestissimo. Non basta sfamare queste migliaia di uomini, bisogna riportarli a casa. E occorreranno ponti aerei e navali che solo l’Occidente è in grado di organizzare. Loro preferiscono cercare riparo sotto il misero baldacchino arboreo degli eucalipti, che tengono testa al deserto, alberi subito decapitati per costruire ripari di frasche e alimentare i fuochi contro il freddo della notte. Intorno cresce, ogni giorno, ogni ora, un mondo ambiguo e scuro. Trafficanti dall’occhio losco si aggirano sui piazzali della frontiera, che ti guardano con il sorriso sfrontato del pirata sulla tolda, e agitano il richiamo di mazzi di denaro tunisino. Praticano il cambio nero, cercano i soldi libici che gli emigranti si portano dietro con l’ultima paga. Altri vendono sigarette, schede di telefonini per chiamare casa, propongono scambi oscuri. È la scorza di traffici che accompagna ogni naufragio, che cresce lavora corrompe. A dieci chilometri da tutto questo, sotto l’ombra di una piantagione di ulivi, incontriamo un tunisino elegante, difeso dal sole da una grande cappello di paglia. Pochi metri lo separano dalla strada dove passa il traffico, i convogli di aiuti. Non si nasconde. Lo accompagnano alcune auto, pronte. È uno degli organizzatori del traffico dei clandestini verso Lampedusa. Aspetta i «clienti» , li porterà a casa sua per la notte. E poi li imbarcherà per la traversata. Ieri mattina alle cinque dal porto di Zarzis, la vicina città, è partita una nave. Ha sulla fiancata un dolce nome di donna, Taisjr. È la figlia del proprietario che l’ha venduta ai mercanti di clandestini. Un peschereccio grande, con settecento posti. Ha imbarcato «solo» quattrocento persone, il tempo era buono, inutile aspettare ancora. Se il mare è rimasto calmo, è arrivata nella notte a Lampedusa.