Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 02/03/2011, 2 marzo 2011
CHI PERDE E CHI VINCE NELLE CRISI NORDAFRICANE
Alcuni anni fa il Corriere pubblicò un libro, «Anatomia del terrore» , sotto forma di intervista, in cui lei rispondeva alle domande poste dal giornalista Guido Olimpio. Ad una domanda sul futuro di Al Qaeda, la sua risposta fu che la vera battaglia, col tempo, si sarebbe spostata all’interno del mondo arabo musulmano. Gli avvenimenti di questi giorni sembrerebbero darle ragione, ma nessun commentatore ha sfiorato questo tema. La versione ufficiale è che si tratti di movimenti di rivolta spontanei, nati dalla base. A me pare improbabile che a distanza di pochi giorni decidano di fare la rivoluzione quattro o cinque popolazioni del Nord Africa, peraltro appartenenti tutti all’Islam moderato e a nazioni che mantengono buone relazioni con l’Occidente, avendo come unica arma l’uso di Internet.
Giuseppe Schininà
schinina.giuseppe@tin. it
Caro Schininà, pensavo, e continuo a credere, che i maggiori nemici dell’islamismo radicale siano i Paesi musulmani legati agli Stati Uniti da stretti rapporti di reciproca convenienza e governati da sistemi politico-economici ispirati, sia pure in modo imperfetto, ai modelli occidentali. Nel settembre del 2001 Al Qaeda ha colpito l’America, ma il suo messaggio era indirizzato principalmente al Cairo, a Rabat, Algeri, Tunisi, Amman, e voleva dimostrare che il loro grande protettore era una «tigre di carta» . Mi sembra di capire che nelle rivolte scoppiate in alcuni Paesi musulmani lei veda la mano occulta della maggiore organizzazione islamista. Credo invece che la protesta sia stata spontanea e che i giovani scesi nelle piazze fossero mossi da desideri e richieste che Osama Bin Laden considererebbe blasfeme. I manifestanti non sventolavano il Corano, non proclamavano la superiorità della sharia, non affermavano che l’Islam rappresenta la soluzione di ogni problema. Avanzavano richieste perfettamente compatibili con la concezione occidentale della democrazia. È possibile rovesciare il suo argomento, caro Schininà, e sostenere che i movimenti popolari delle scorse settimane rappresentano potenzialmente la più sonora sconfitta ricevuta sinora dall’islamismo. Ho scritto «potenzialmente» perché tutto dipende in ultima analisi dagli sbocchi politici della protesta, vale a dire dai regimi che rimpiazzeranno quelli abbattuti dalle rivolte popolari. Il vincitore, se mai, non è Al Qaeda, ma l’Iran. Anche il regime degli ayatollah ha dovuto fare fronte a grandi dimostrazioni di protesta (l’ «onda verde» , dopo le elezioni presidenziali dell’anno scorso), ma le ha stroncate e, almeno per ora, è uscito vincitore dalla prova. Quando sono scoppiati i moti del Cairo, l’ayatollah Khamenei, leader supremo della Repubblica islamica, ha esortato i giovani a sbarazzarsi di Mubarak. Non ha parlato in quei termini per un sentimento di solidarietà con la protesta giovanile, ma perché sperava che la rivolta gli regalasse la sconfitta di un regime che è stato, insieme all’Arabia Saudita, il maggiore avversario dell’Iran nel mondo musulmano. Questo è il secondo regalo che la storia ha fatto agli ayatollah in questi ultimi anni. Il primo lo fece George W. Bush quando, invadendo l’Iraq, abbatté il regime anti-iraniano di Saddam Hussein e aprì il Paese all’influenza religiosa e politica degli iraniani sulla sua maggioranza sciita. Dal crollo del regime di Mubarak, Teheran ha già tratto un primo vantaggio ottenendo dal governo militare del Cairo il permesso di transito nel canale di Suez per due navi della sua marina militare. Mubarak, probabilmente, lo avrebbe rifiutato.
Sergio Romano