Andrea Carandini, Corriere della Sera 02/03/2011, 2 marzo 2011
E L’AMLETO DELL’ANTICA ROMA FONDO’ IL PRIMATO DELLA LEGGE
Nel mondo antico gli ordinamenti delle città stato non erano votati da assemblee costituenti, ma dati da fondatori legislatori, in origine figure eroiche, semi-divine, come Romolo e Servio Tullio. Nei suoi primi 244 anni, Roma ha conosciuto tre fondatori, ai quali dobbiamo l’ordinamento secolare della città: Romolo (750 a. C. circa), Servio Tullio (550 a. C. circa) e Bruto (509 a. C.). Il potere costituente è per definizione arbitrario, dovendo istituire un ordine nuovo. Infatti i tre fondatori di Roma si autonominarono, ma fra Romolo e Servio Tullio i re Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio e Tarquinio Prisco — quest’ultimo non più un latino o sabino ma un greco-etrusco — furono re costituzionali, che erano affiancati da un consiglio e da un collegio sacerdotale e che governavano davanti a una assemblea popolare, assai reattiva. È questa la costituzione «mista» di Roma— un poco regia, un poco aristocratica e un poco democratica— che aveva il compito di garantire, subito dopo le fondazioni, la scomparsa dell’arbitrio e il bilanciamento tra i poteri. La costituzione di Servio Tullio sarà la costituzione che la Repubblica erediterà, salvo l’ingombrante e amata figura del fondatore, il quale infine avrebbe voluto riconsegnare l’imperium al popolo che glielo aveva dato. Ma non andò così. Come già Tarquinio Prisco, che tentò di aggiornare la costituzione di Romolo, Servio Tullio morì ammazzato, perché aveva sconvolto l’ordinamento tradizionale e voleva instaurare la Repubblica. Ad ucciderlo fu un nipote di Tarquinio Prisco, Tarquinio il Superbo, che nel 534 a. C. fondò per la prima volta una tirannia non costituente, totalmente arbitraria, aborrita da tutti i romani e dotata di volontà di potenza illimitata. Creò infatti un piccolo impero, anche oltre il Lazio, invadendo la Pianura Pontina, Eldorado di cereali, necessari a nutrire i poveri romani asserviti ai lavori pubblici: dalla Cloaca Massima al Tempio di Giove, Giunone e Minerva sul Campidoglio. Bastarono i venticinque anni del Superbo per inculcare ai romani terrore e odio per i tiranni. Accadde così che un finto idiota fondasse la Repubblica, ispirandosi all’ultimo volere di Servio Tullio. Ma chi era il finto idiota? Era una figura che ci ricorda Amleto, il finto pazzo che tramò una vendetta. Apparteneva alla famiglia dei Giuni, ma da parte di madre era un Tarquinio anche lui. Tarquinio il Superbo, che aveva preso il potere con il terrore, aveva ucciso suo padre e suo fratello, ma lui, ancora piccolo, era stato risparmiato. Chi suggerì al bambino di fingersi idiota per sopravvivere? La favola di una tata? Saputo del giovane parente idiota, il Superbo lo ospitò nella sua casa: con le sue stupidaggini avrebbe trastullato i tre principini. Un giorno lo scemo raccolse piccoli fichi immaturi caduti in terra, immangiabili, e li deglutì conditi di miele... Ma negli intervalli della finta insania, il giovane Giunio, soprannominato a corte Brutus, che significa «idiota» , imparava tutto della vita e del potere, chiuso negli «atri odiosi di un re crudele» (come Marziale descriverà la Domus Aurea del tiranno Nerone). Roma era allora nella condizione in cui si trovavano nel dicembre scorso l’Egitto, la Libia e la Tunisia. Bastò un evento che la rivolta d’un tratto deflagrò. Sesto, figlio del Superbo, giovane depravato che aborriva le caste donne, stuprò Lucrezia, moglie di suo cugino Collatino. Lucrezia, per sempre insozzata, come allora si riteneva, si uccise, chiedendo vendetta. Era giunto il momento che Bruto attendeva. Rivelò le ragioni della sua idiozia, estrasse il pugnale dal seno della matrona e su di esso lui stesso, il marito, il padre e l’amico Valerio giurarono che avrebbero cacciato i Tarquini da Roma, che la «cosa pubblica» , finalmente libera, sarebbe stata affidata a due consoli, nell’ordine costituzionale di Servio Tullio finalmente resuscitato. I romani votarono concordi la Repubblica e le giurarono fedeltà, anche per i discendenti. Fu il loro primo atto di cittadini liberati dalla monarchia, rivelatasi anticamera della tirannide. Bruto e Collatino furono i primi consoli. Allora per la prima volta la legge fu uguale per tutti, al punto che, avendo i figli congiurato contro il nuovo ordine, Bruto li condannò e li fece decapitare davanti a sé, senza una lacrima. Da allora e per la prima volta bastò essere giudicati anche soltanto «aspiranti» al regno, per essere estromessi dalla comunità e consacrati agli dei. Al contrario della democrazia ateniese, che finì come un potere assoluto dei più e non durò più di tre o quattro generazioni, la Repubblica di Roma durò quasi mezzo millennio, fino al principato di Augusto. Tutti i repubblicanesimi successivi, dai Comuni medievali alla Repubblica francese, si ispirarono a Roma, per cui Bruto divenne il simbolo universale della libertà. La costituzione mista repubblicana offrì il massimo di garanzie possibili prima dell’invenzione dei poteri divisi ed arbitrati da un capo dello Stato neutrale, che sono invenzioni esclusivamente moderne. Ma come la libertà dei moderni (fare nel privato il proprio comodo), definita per la prima volta da Benjamin Constant, si aggiunse— non si oppose— alla libertà degli antichi (praticare le virtù civiche), così il costituzionalismo garantista non sarebbe nato nel Settecento se nella precedente millenaria esperienza dell’Occidente non si fosse consolidata l’idea che la legge deve essere più forte anche dei più forti cittadini e che l’aspirare ad essere più forti della legge è un tradimento dello Stato. Ecco allora che la figura di Bruto, oggi trascurata, torna ad ispirarci. Non abbiamo forse bisogno, oltre ai comodi privati, di patria e di virtù repubblicane? La storia insegna che a minacciare la libertà di tutti non sono solo gli uomini arbitrari già arrivati al potere, ma anche coloro che aspirano a una signoria, seppure in un quadro formalmente repubblicano. Oltre al potere arbitrario dobbiamo pertanto temere anche il potere enorme, con il suo seguito di genuflessioni e favori.
Andrea Carandini