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 2011  marzo 02 Mercoledì calendario

CATENE AI CANCELLI E BARRICATE. SI FERMANO I POZZI DI PETROLIO —

Catene in acciaio massiccio ai cancelli e barricate con sbarre di ferro a bloccare chi non avesse capito. La maggior raffineria nel centro del Paese da cinque giorni è chiusa. «Motivi di sicurezza. La Libia è nel caos. Per quello che ne sappiamo proprio qui potrebbe iniziare da un momento all’altro una delle battaglie principali tra rivoltosi e forze pro Gheddafi» , dicono le guardie. Fermo il porto industriale (l’ultimo a salpare è stato un cargo di prodotti chimici); vuoti gli oleodotti e quasi del tutto i giganteschi depositi di greggio; partito il 70 per cento dei circa 7.000 lavoratori, per lo più indiani, pachistani e filippini. L’unico a funzionare a meno del 10 per cento delle sue capacità è il gasdotto. «Serve per garantire energia elettrica nelle zone controllate dai rivoltosi a est e quelle ancora legate al regime nell’ovest» , spiegano gli ingegneri. Sulla loro testa troneggia la scritta «Sirt Oil Company» (Soc), la società petrolifera voluta da Gheddafi dopo la nazionalizzazione degli impianti stranieri negli anni Ottanta. Qui allora operavano soprattutto gli americani della Esso e la britannica Bp, gli italiani sono concentrati verso Tobruk e nei dintorni di Tripoli.
Arrivare agli impianti di Brega comporta attraversare gli oltre 200 chilometri di deserto lungo la costa che conducono alle regioni prospicienti il Golfo della Sirte ancora tenute dalle milizie delle tribù filo-Gheddafi. Non c’è un vero confine. Non si vedono postazioni fisse, casematte o trincee. «Tre giorni fa cinque gipponi di miliziani sono arrivati dalla basi dei terminali petroliferi di Ras Lanuf, 270 chilometri più a ovest, per pattugliare brevemente il villaggio nell’oasi di Alghela e l’abitato di Bashar, solo 20 chilometri da noi. Nessuno li ha fermati. Se avessero voluto, avrebbero potuto sbaragliare le guardie di Brega in pochi minuti» , ammette Adel Sharir, 30 anni, proprietario del piccolo negozio di alimentari presso l’entrata della raffineria. Nulla a che vedere con l’entusiasmo che pervade le strade di Bengasi. Se da quelle parti resta la certezza di avere voltato pagina definitivamente, a Brega permane un diffuso sentimento di precarietà. E poco sembra garantire che le milizie del regime assieme ai mercenari africani, che Gheddafi fa arrivare via aerea alla città di Sabha nel cuore del deserto 350 chilometri più a sud, non possano riprendere l’offensiva da un momento all’altro. L’impressione è dunque che il peggio possa ancora venire. Risultato: se ancora il 27 febbraio Sukri Ghanem, ministro del petrolio ombra a Tripoli, poteva sostenere baldanzoso che la produzione di greggio era stata ridotta «solo» del 50 per cento con la prospettiva di rapida ripresa «nei prossimi giorni» , adesso gli impianti stanno chiudendo progressivamente i rubinetti in attesa del peggio.
A Brega trionfa la desolazione. Evidente subito, già entrando tra la fila di casupole povere lungo la provinciale. Qui l’università di Al Najam Al Saata (Stella Brillante), voluta dagli americani negli anni Sessanta per i loro tecnici petroliferi, è vuota da due settimane. Un pugno di ragazzini armati di mitra controlla il passaggio verso ovest. «Attenti. Già tra quaranta chilometri potreste venire fermati. Gheddafi non vuole che gli stranieri entrino nel suo territorio senza il visto da Tripoli» , avvisano. Anche le piste nel deserto di sabbia verso i 10 pozzi petroliferi collegati alla raffineria, lontani circa 200 chilometri, e tre di gas, a 90 chilometri, sono poco sicure. Bande di predoni sembra abbiano rubato diversi gipponi della Soc. Ci si inoltra unicamente con scorta armata. «Peccato si debba chiudere gli impianti. Brega produce quasi 100.000 barili di greggio quotidiani sul milione e seicentomila nazionali. Relativamente poco. Ma il nostro punto di forza è il gas: 200 milioni di metri cubi quotidiani. Sono estratti dai pozzi di Sahal, Katiba e Hatthadi» , spiega Abu Backer Adssadi, 33 anni, ingegnere petrolifero originario di Bengasi, laureto in Gran Bretagna e da 9 anni impiegato alla Soc. «Non credo affatto che riprenderemo a lavorare nel breve periodo. Non solo occorre tempo per rimettere in funzione gli impianti. Soprattutto adesso ci manca il personale. Inglesi e americani hanno evacuato i loro tecnici con rapide missioni aeree dagli impianti nel deserto. Lo stesso stanno facendo gli italiani, tedeschi e francesi. La massa degli operai asiatici sta partendo via mare. Non è facile rimettere l’intero meccanismo in funzione» , aggiunge indicando sconsolato le alte torri in metallo della raffineria ora silenziose. Spenta la fiamma dei gas di scarico, sparito il pennacchio di fumo.
Nei villaggi attorno alla raffineria le bandiere verdi dei pro Gheddafi si confondono a quelle della vecchia monarchia diventate il simbolo della rivolta. Segno che qui la popolazione per ora resta per lo più a guardare.
Lorenzo Cremonesi