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 2011  marzo 01 Martedì calendario

IL VENTO DI LIBERTÀ FA PAURA AL CAPITALISMO CINESE

pechino. «La rivoluzione è stata sventata, ma l’instabilità resta». Commenta così il South China Morning Post i postumi della versione cinese della Rivoluzione dei gelsomini. Sui quotidiani della Repubblica popolare, invece, gli unici riferimenti a questo movimento sono rintracciabili all’interno degli articoli che parlano delle proteste che hanno infiammato la Tunisia, l’Egitto, l’Algeria e la Libia.
Eppure solo una settimana fa i blogger cinesi si sono attivati in massa per lanciare un appello alla mobilitazione che è stato prontamente raccolto da 13 metropoli, organizzando anche nelle Repubblica popolare una Giornata dei Gelsomini, cogliendo l’occasione per ricordare al popolo le colpe, gli errori e le ingiustizie commessi dal Partito.
Gli internauti hanno cercato di attirare l’attenzione dei disoccupati, dei genitori dei bambini rimasti avvelenanti dal latte alla melamina, dei seguaci del Falun Gong, dei dissidenti e degli operai che si sentono vessati dai datori di lavoro e dal regime, sollecitandoli a scendere in piazza per chiedere «cibo, lavoro, una casa e un po’ di giustizia». Tuttavia, le poche centinaia di cinesi che hanno aderito alla manifestazione hanno preferito limitarsi a lanciare qualche gelsomino bianco.
I pochissimi comunicati ufficiali diffusi dal Partito spiegano che i manifestanti che si sono incontrati a Pechino e a Shanghai una decina di giorni fa sono stati immediatamente dispersi dalla polizia, che ha presenziato tutte le metropoli considerate “a rischio” con decine di migliaia di unità. Dopo aver arrestato alcuni dimostranti -almeno un centinaio per gli attivisti orientali-, le forze dell’ordine hanno messo in chiaro che il governo avrebbe potuto continuare a dormire sonni tranquilli, perché con l’aiuto dei militari sarebbero state in grado di tenere sotto controllo la situazione.
Per sentirsi ancora più protetto, il Partito ha deciso di bloccare sui motori di ricerca orientali la ricerca di informazioni su “gelsomini” e “rivoluzione dei gelsomini” e di controllare più del solito Twitter e Facebook. Alcuni provider di telefonia mobile hanno ostacolato per giorni lo scambio di sms e ad alcune università è stato persino chiesto di «chiudere i cancelli per evitare che gli studenti potessero mescolarsi ai movimenti di protesta».
Nonostante l’ostracismo del governo, gli attivisti non hanno perso le speranze. La scorsa settimana sono state organizzate nuove Giornate dei Gelsomini in 18 città - poi diventate 23 - e potrebbero continuare ad aumentare. Nessuno si è spaventato quindi per il fatto che poco meno di un centinaio di attivisti sia stato costretto ad arresti domiciliari preventivi per impedirne la partecipazione alle varie manifestazioni. La scorsa settimana, se ad alcuni le autorità si sono limitate a sequestrare computer e cellulari, altri sono stati arrestati con le accuse più disparate, come quelle di “incitamento alla sovversione dell’ordine dello Stato” e di “cercare di connettersi ad alcuni siti con una falsa identità”. Infine, gli attivisti residenti all’estero che hanno cercato di tornare in Cina per partecipare al movimento dei gelsomini sono stati bloccati alla frontiera, mentre è stata revocata l’autorizzazione per tutte quelle iniziative, dal lancio di un nuovo prodotto alla presentazione di libri, in cui si sarebbero potuti creare (pericolosi) assembramenti.
Pechino, è evidente, ha paura. Ufficialmente continua ad affermare che oggi «la Cina è immune da qualsiasi vento rivoluzionario», ma se si ritrova a dover costringere le università a chiudere i cancelli, a mobilitare in massa le forze dell’ordine e a imporre arresti domiciliari “preventivi” per stare tranquilla significa che il governo non è poi così sereno.
Due giorni fa, nelle piazze di Pechino, Shanghai e Guangzhou i militari erano ancora più numerosi per evitare complicazioni in quella che gli internauti d’Oriente hanno definito “la seconda domenica cinese dei gelsomini”. Nella capitale sono stati fermati parecchi giornalisti e ai passanti è stato imposto di registrare le proprie generalità mostrando i documenti d’identità. La risposta con una militarizzazione di massa a un movimento di protesta web, che, in fin dei conti, non è riuscito a far scendere in piazza più di qualche centinaio di persone, spiega un’evoluzione molto importante della Cina contemporanea.
La classe media cinese, assieme a tutti coloro che continuano a fare fatica a lasciarsi alle spalle le conseguenze di una crisi economica che ha colpito anche la Repubblica popolare, si è lasciata influenzare dalle proteste africane non tanto nella speranza di riuscire a sovvertire il regime quanto spaventata di fronte all’eventualità che il contraccolpo economico che potrebbe subire la Cina dall’ondata di instabilità nordafricana possa di nuovo danneggiarli personalmente.
Pechino non ha interessi economici e finanziari così importanti in questa regione, ma è vero che la propaganda ha convinto la popolazione che sarebbero stati proprio i nuovi mercati emergenti del Terzo mondo ad allontanare dalla Repubblica popolare il pericolo di un rallentamento della crescita. Il Partito ha fatto al popolo una promessa importante, e un crollo delle esportazioni legato all’instabilità politica ed economica del Nord Africa in un momento in cui anche la vendita dei prodotti cinesi a buon mercato è in difficoltà potrebbe far incrinare quella fiducia incondizionata che il Paese si ritrova a riporre nella classe dirigente dai tempi delle riforme economiche degli anni ‘70.
Ecco perché, invece di mandare i militari in piazza ad arrestare chi lancia nell’aria un gelsomino bianco, Pechino farebbe meglio a riattivare la macchina della propaganda, convincendo i cinesi che le esportazioni verso il Nord Africa potranno facilmente essere vendute altrove, e ricordando loro che, nonostante tutto, l’unica entità in grado di garantire il benessere economico resta il Partito.