Giuseppe Marcenaro, Il Secolo XIX 1/3/2011, 1 marzo 2011
LA BISTECCA DEL PATRIOTA
Brno, capoluogo della Moravia, è una città carica di storia e di monumenti. Sulla collinetta che domina il centro storico sta lo Špilberk, una ferrigna fortezza. Da lontano sembra un mastino addormentato. Risale al XIII secolo e come tutte le vestigia di pregio è visitata dai turisti che si infilano ovunque, fin nei sotterranei delle casematte, nelle celle buie e umide dove, nei secoli, si compì la sorte di quanti, per le differite ragioni della storia, si trovarono a collidere col potere. Vi furono rinchiusi giacobini, magiari, polacchi e quanti voglia far valere l’immaginario, fin alla seconda guerra mondiale, quando lo Špilberk fu scelto dai nazisti come luogo destinato alle esecuzioni. E nel 1820, arrestato come carbonaro, vi fu condannato a vita, carcere duro, assieme a Silvio Pellico, Pietro Maroncelli.
È una storia nota. Rievocata da uno di quei pilastri della retorica risorgimentale che è “Le mie prigioni” di Pellico nelle cui pagine si racconta come “il carattere di Maroncelli e il mio erano in perfetta armonia. Se uno di noi si sentiva preso da malinconia o dall’ira per la durezza della sua condizione, l’altro rallegrava l’amico con piacevolezze…”. A parte immaginare piacevoli facezie nelle segrete dello Špilberk, viene subito alle memoria l’atroce amputazione della gamba di Maroncelli eseguita in cella dal chirurgo del carcere. Con per cronista Pellico il quale, sinistro sadico, facendo correre brividi nei lettori del suo resoconto, dettaglia fin nei minimi e raccapriccianti particolari il procedere dell’intervento.
Poi la lacrimevole riconoscenza di Maroncelli nei confronti del chirurgo con l’omaggio di una rosa. Storia che tutti conoscono. Segnalata a profluvio negli antichi sussidiari delle scuole elementari che evocavano eroismi, atti e frasi memorabili del risorgimento.
I turisti che oggi si infilano nelle celle dello Špilberk, riemergono alla luce impressionati dall’orrore. Un giro per le segrete, memori della storia di Maroncelli, inorridisce la mente di chi esplori gli ambulacri bui e gelidi. Si prova un profondo malessere. Che dura però poco giacché ci si consola pensando che le efferatezze compiute in quei luoghi, fortunatamente, sono storia passata. Usciti dall’angosciante sotterraneo l’immediata e preoccupata vocazione del turista è generalmente quella di trovare un ristorante che, rifocillando il corpo, gli rassereni anche l’anima.
Un ristorante comodo sta proprio nel cortile dello Špilberk. Si chiama Hradni Vinárna. Ha un menù importante. Si apre con: “Bistecca alla Maroncelli”. Al di là dello sconcerto, si resta contrariati che il nome del povero amputato debba passare alla storia, almeno per il ristoratore di Brno, come piatto disponibile a pochi metri da dove avvenne il sanguinoso fatto. La vita di Pietro Maroncelli ebbe ben altro esito. Per una di quelle imperscrutabili e rare pietà, sovente opportunità, dei tiranni, il 1° agosto 1830, dopo dieci anni di carcere duro, il governo austriaco liberò Maroncelli e Pellico. Rientrati in Italia, a Mantova si separarono. Non si sarebbero più visti.
Pellico se ne tornò in famiglia. Trascorse il resto dei suoi anni tranquillamente a Saluzzo, morbidamente protetto dall’affetto dei suoi e onorato dalla considerazione dei cittadini. Era l’immagine vivente del patriota reduce, dell’eroe. Anche Maroncelli rientrò alla natia Forlì ma, da quelle parti, l’occhiuta polizia non cessò di controllarlo. Il suo esibito idealismo continuava a suscitare sospetti. Fu costretto ad andarsene, dando avvio a un ben drammatico esilio. Per breve periodo fu a Parigi dove scrisse “Addizioni alle Mie prigioni di Pellico”, il suo punto di vista sulla carcerazione allo Špilberk. Generosamente evitò di svelare i nomi d’altri patrioti che, per fragilità o altri intricati scopi, con gli inquisitori non avevano celato il segreto sui compagni.
Intanto si era sposato con Amalia Schneider, una cantante lirica, e con lei partì per New York. Era un esule. Nel Nuovo Mondo il patriota presto dimenticato cercò ospitalità e lavoro. “Ed io lo vedo - scrisse Pallavicini rievocandolo - lo sventurato, trascinarsi per le strade di New York, passare da una casa all’altra a dar lezioni di italiano e racimolare un soldo per sopravvivere… Qualche lustrascarpe italiano quando lo vedeva attraversare a stento una strada, traballante sull’unica gamba, lo prendeva a braccio… Aveva bisogno del braccio d’un lustrascarpe l’uomo che aveva offerto i suoi anni migliori alla libertà della patria”.
Mettendo a frutto i giovanili studi musicali, Maroncelli riuscì a diventare organista della chiesa francese di New York. Fu breve sollievo. I patimenti, la menomazione, l’avvilimento e la nostalgia per la patria lontana, i terribili sgomenti dell’animo, le umiliazioni, l’incancellabile memoria degli anni trascorsi allo Špilberk e i lancinanti dubbi sulle idealità tradite, progressivamente, ogni giorno sempre più, l’intelletto gli si confuse. Maroncelli impazzì. Non volle più ricordare e la sua mente si disfece. Morì il 1° agosto 1846. Fu sepolto nel cimitero di Greenwood. In Italia nessuno si ricordava più di lui.
Quarant’anni dopo, nel 1886, in uno dei periodici sussulti celebratori che mettiamo in scena, qualcuno propose di far rientrare i resti di Maroncelli per inumarli in patria. Furono creati ben due comitati italiani. Entusiasti. Ma ci volle l’intervento di Tullio Suzzara Verdi che da Washington pagasse tutte le spese. Anche la traslazione dell’urna con le ossa sul piroscafo della Navigazione Generale Italiana “Archimede”. L’Italia ci mise i discorsi.