Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 01/03/2011, 1 marzo 2011
QUELL’IDEA DI ITALIA CHE HA PIU’ DI 150 ANNI
Se ne trova parecchia di materia su cui discutere nel ponderoso saggio di Francesco Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea (Il Mulino). Tanta che qui è possibile dar conto solo delle sue direttrici essenziali, anche polemiche. Si parte dalla celebre frase attribuita a Massimo d’Azeglio: «Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani» . Uno dei tanti stereotipi, sostiene Bruni, forse il maggiore: l’Italia sociale e culturale esisteva ben prima dell’Italia politica sancita nel 1861. La dimostrazione sta nei tredici capitoli del suo libro, che vanno dalla Roma tardorepubblicana e imperiale, con il suo senso di una cittadinanza inclusiva e con il suo impianto giuridico universale, fino alle teorie di Vincenzo Cuoco. Rispetto al distruttivismo di oggi, che riduce la formazione dello Stato italiano a prodotto improvvisato, Bruni capovolge la prospettiva tracciando il filo della lunga preesistenza di un’Italia «multidimensionale» (geografica, giuridica, religiosa, linguistica, con le manifestazioni più visibili del vestire e del mangiare): «Una comunità in cerca di uno Stato, insomma, e non uno Stato in cerca di una comunità» . L’Unità rispose, piuttosto, all’esigenza diffusa di darsi un assetto politico. È particolarmente interessante il capitolo rinascimentale dove si mostra come la potenza culturale e artistica dell’Italia dei piccoli comuni riuscì a dare all’Europa una prospettiva armonica sul piano diplomatico, umanistico e religioso, facendo interagire felicemente dimensione municipale e internazionale. Un altro filone polemico è quello che si oppone all’eterno complesso di inferiorità nazionale rispetto a Paesi come la Francia o l’Inghilterra, protagonisti di rivoluzioni a vario titolo, diversamente dall’Italia, Paese senza rivoluzioni destinato a inseguire «il gruppo di testa» . Un’idea di inadeguatezza dannosissima, secondo Bruni, perché «in tal modo impedisce di considerare i ritmi di una storia nazionale» . Allo stesso modo, Bruni tende a valutare in positivo la permeabilità tra cattolicesimo e cultura laica, richiamando il modello umanistico (al riguardo sarebbe interessante sentire l’opinione di Ermanno Rea, che nel recente La fabbrica dell’obbedienza vede nella mancata riforma luterana il tramonto di una collettività civile). La riforma protestante come «faro unico di sviluppo e progresso» e la povertà morale sarebbero, secondo Bruni, due dei tanti falsi miti che si trascinano fino a oggi. Dunque, sono proprio i fondamenti non etnici del concetto di Italia, le sue basi culturali, letterarie e di costume, a favorire la libera formazione della nazione e della lingua ben prima della nascita dello Stato: non la pesantezza dell’ «hardware» ma la leggerezza creativa del «software» . Certo, osserva Bruni, «con la stessa libertà si può anche giungere allo scioglimento» . Ma è bene sapere che la contrapposizione tanto diffusa tra appartenenza locale e appartenenza italiana, così come l’ostilità tra dialetti e lingua nazionale, è estranea alla nostra tradizione e in definitiva al nostro Dna. Forse semplicemente non siamo all’altezza del nostro passato.
Paolo Di Stefano