Ettore Bianchi, ItaliaOggi 1/3/2011, 1 marzo 2011
LE MINIERE RENDONO PIU’ DEI POZZI
Non soltanto pozzi petroliferi ed estrazione di oro nero. In questo momento c’è qualcosa che arricchisce una categoria di aziende tanto quanto i colossi mondiali del greggio. Sono le società del settore minerario, che stanno mettendo a segno performance di rilievo scavando e portando alla luce materie prime come nickel, manganesio, alluminio, diamanti, titanio.
Il gigante brasiliano Vale gongola: ha appena festeggiato il miglior bilancio annuale della sua storia, con un record per giro d’affari, margini, flussi di cassa e profitti.
L’utile netto nel 2010 è più che triplicato rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra di 17,3 miliardi di dollari (12,5 mld euro) e il fatturato è quasi raddoppiato a 46,5 miliardi di dollari (33,7 mld euro). Così Vale conta di investire 24 miliardi di dollari (17,4 mld euro) nel corso di quest’anno. Merito in gran parte dell’innalzamento dei valori, che hanno pesato per oltre l’80% sull’accrescimento del giro d’affari.
Vale è in ottima compagnia. Le si affiancano l’australiana Bhp Billiton e l’anglo-australiana Rio Tinto, anch’esse in odore di forti investimenti per potenziale le loro attività. Ma, più in piccolo, c’è anche la francese Eramet, che produce nickel e manganesio e ha stimato di mettere sul piatto 600 milioni di euro nel 2011, andando al raddoppio rispetto allo scorso anno.
Il settore sta calamitando nuovi attori. È il caso di Caterpillar, che in novembre ha portato a termine un’operazione record, acquisendo per 8,6 miliardi di dollari Bucyrus, azienda americana che si occupa di equipaggiamento da miniera.
Quello che fanno i colossi minerari è un percorso parallelo a quello delle società petrolifere, che vedono moltiplicarsi i guadagni di pari passo con lo schizzare all’insù delle quotazioni del greggio.
Basti pensare che l’utile netto di 17,3 mld di dollari di Vale è vicino a quello messo a segno da Shell (18,6 mld) ed è superiore a quello di Total, che nel 2010 è ammontato a 13,6 mld.
C’è inoltre un elemento critico nel comparto petrolifero: l’impennata dei prezzi è gravida di pericoli per le nazioni e le imprese produttrici, anche se le entrate a breve termine sono gonfiate. Questa inflazione, al di là dei rischi di uno choc petrolifero che avrebbe gravi ripercussioni sull’economia globale, rende più fragile la percezione del greggio come fonte energetica affidabile e accessibile e spinge le aziende utilizzatrici a cercare strade alternative.
Ecco perché l’Arabia Saudita, sempre attenta a custodire i suoi interessi a lungo termine, si è affrettata ad alimentare i mercati in caso di crisi. Non a caso, recentemente, l’a.d. di Total, Christophe de Margerie, ha definito problematico il superamento della soglia di 100 dollari al barile.