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 2011  marzo 01 Martedì calendario

SEI COLTELLATE ALLA NOSTRA UMANITA’

Questa storia, a ben pensarci, inizia il 7 ottobre del 2010, ad Avetrana, in provincia di Taranto, quando la scomparsa di una quindicenne di nome Sarah Scazzi, svanita nel nulla il 26 agosto precedente, ha finalmente un colpevole: lo zio Michele Misseri, che l’avrebbe strangolata «per motivi sessuali», e poi gettata in un pozzo, ricoprendola di pietre e di sterpaglie. Il corpo viene ritrovato proprio su indicazioni del “mostro”, ma le sue versioni sull’accaduto, nei giorni e nei mesi successivi, cambieranno molte volte, fino a coinvolgere altre persone, tra cui la figlia Sabrina. Dal 7 ottobre in avanti, in Italia, non si fa altro che discutere della povera quindicenne barbaramente assassinata, e delle reali responsabilità dello zio e di sua figlia, che però nega ogni addebito. L’Italia intera è profondamente scossa, e non riesce a dare un nome a quel che è accaduto nel piccolo paese messapico.
Neanche il tempo di mettere almeno qualche punto fermo sulla vicenda di Sarah Scazzi, ecco che un’altra giovanissima ragazza italiana entra all’improvviso nel cono d’ombra degli “scomparsi”. È Yara Gambirasio, tredicenne di Brembate di Sopra, provincia di Bergamo. Il 26 novembre del 2010, alle ore 18.30, Yara esce dalla palestra della Polisportiva di Brembate, dov’era andata per allenarsi, e da quel momento in poi di lei non si hanno più notizie.
Yara Gambirasio è nata nel 1997, frequenta dalle suore orsoline la terza media, ed è una promessa della ginnastica ritmica. È una ragazza normale e, a differenza di Sarah Scazzi, due anni più grandi di lei, ha ancora il corpo e lo sguardo da bambina (porta anche un apparecchio ortodontico), e quindi non ha nessun elemento esteriore che possa renderla agli occhi di qualche mal intenzionato una “preda sessuale” (almeno questa è la sensazione diffusa). L’ultima traccia che Yara Gambirasio lascia è un sms scritto e inviato alle ore 18.55 alla sua amica Martina, nel quale dice, riferendosi a una partita: «Dobbiamo essere lì per le 8».
Pochi minuti prima, alle ore 18.49, il suo cellulare aggancia la cella telefonica di Mapello, che si trova a pochi chilometri da Brembate. Da quel momento in poi il suo cellulare, che aveva in rubrica non più di dieci nomi, tacerà per sempre.
Il primo dicembre, davanti alle telecamere del programma di Rai3 Chi l’ha visto?, il primo indizio: un ragazzo di 19 anni, Enrico Tironi, vicino di casa di Yara, afferma di aver visto la ragazza, la sera del 26 novembre, parlare e scherzare con due uomini (di cui uno slavo), e poi di essere salita su una Citroen rossa rigata a un fianco (Tironi è assai dettagliato nelle descrizioni). Poi, all’improvviso, il colpo di scena: Tironi ritratta tutto (è stato minacciato? E se sì, da chi e, soprattutto, in che modo? Telefonicamente?), e si fa passare per mitomane (in seguito però, riascoltato dagli inquirenti, riconfermerà ancora una volta la prima versione della sua controversa testimonianza).
Intanto gli inquirenti non escludono nessuna pista, neanche quella del rapimento, ma si brancola nel buio. Epperò si pensa anche al peggio (anche se tutti sperano che la ragazza sia ancora viva), tanto che viene setacciato a tappeto, con l’ausilio delle unità cinofile, l’intero circondario, ma soprattutto il cantiere del centro commerciale di Mapello, dove i cani molecolari erano letteralmente impazziti allorquando si avvicinarono a uno stanzino interrato. Ad avvalorare l’ipotesi dell’occultamento del corpo di Yara all’interno del cantiere c’è anche una lettera anonima che viene recapitata l’8 gennaio del 2011 alla redazione dell’Eco di Bergamo, dove qualcuno scrive (chi?), con lettere ritagliate da un giornale: «Yara è nel cantiere di Mapello. Ho paura». Un depistaggio? Qualche mitomane? E perché esplicitare un sentimento personale («ho paura»)?
Il cantiere è al centro dell’attenzione degli inquirenti anche quando viene intercettato un operaio che in quel cantiere ha lavorato per qualche tempo, e che di colpo si è licenziato. È un marocchino, e il suo nome è Mohamed Fikri. Viene intercettato quando al telefono dice, parlando con un uomo al quale deve restituire 2.000 euro avuti in prestito: «Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io!». Il marocchino viene immediatamente localizzato su una nave che da Sanremo è diretta in Marocco, e gli inquirenti pensano che voglia fuggire dall’Italia (in realtà il viaggio era prenotato da tempo). Viene perciò incarcerato in qualità di indiziato dell’omicidio di Yara; ma la sua frase, pronunciata in uno dei tanti dialetti arabi di difficile decifrazione, viene interpretata da sette diversi periti in modo completamente diverso, e l’operaio viene prontamente scagionato. Fikri, quindi, torna libero e, per l’ingiusta detenzione subita, dà mandato ai suoi avvocati di chiedere un cospicuo risarcimento danni.
Emerge poi una pista Svizzera, ma non porta a nulla. Qualcuno pensa alle sette sataniche, e ricorda che da quelle parti, in passato, seminarono morte e follia le “Bestie di Satana”, ma sono mere supposizioni, non avvalorate da nessun indizio concreto. Si sprecano gli appelli della famiglia e del sindaco di Brembate, e continuano le ricerche della Protezione civile, dei Carabinieri e della Polizia, ma di Yara nessuna traccia. Ci si rivolge anche al mondo paranormale, tanto per non lasciare nulla d’intetato: il 13 dicembre 2010, infatti, la sensitiva Rosemary Laboragine (intervistata sul caso) si dichiara pessimista, e dice (riferendosi alle proprie “visioni”): «Per quanto riguarda il caso di Yara del quale mi sto occupando fin dal primo giorno (in maniera costante, giorno e notte) posso dirvi che secondo i miei flash da subito mi sono resa conto che si trattava di due uomini grandi che l’avevano presa con la forza, violentata e poi, purtroppo, uccisa. Ho visto subito il numero 48 (che successivamente mi hanno detto trattavasi del numero civico di casa Gambirasio) e una macchina rossa (poi nominata dal ragazzo, finora unico testimone). Non so se rimarrà un caso irrisolto. So per certo che le forze dell’ordine brancolano nel buio e non guardano a fondo dove avevo detto io. Vedo acqua e sassi. Una macchina rossa. Forse un fiume? La vedo nel fiume, violentata, e poi uccisa. Comunque non è lontana, ma secondo me è morta. Vedo due uomini adulti che l’hanno presa». Si sorride, ma vengono anche i brividi.
Intanto le trasmissioni televisive e i giornali alternano notizie ora sul caso Yara, ora sul caso Sarah, al punto che le due ragazze, pur di diversa provenienza geografica e sociale, diventano l’emblema luttuoso di un’Italia che si scopre fragile ed esposta a un male senza nome e senza diagnosi. Pure, Avetrana e Brembate mostrano con grande nettezza colori e caratteri di due Italie diametralmente opposte: promiscua, vischiosa e caotica la prima, nebbiosa, rarefatta e riservata la seconda.
Poi, il 26 febbraio del 2011, il corpo di Yara Gambirasio viene ritrovato; e viene ritrovato nel peggior modo possibile, ovvero esanime, riverso nella mota, in avanzato stato di decomposizione, gettato tra gli sterpi (come un’immondizia) in un campo brullo di Chignolo d’Isola, paese che dista una decina di chilometri da Brembate. A trovarlo è un appassionato di modellini aerei, tale Ilario Scotti, che racconta di averla trovata per caso, e di aver pensato, a prima vista, a un manichino di stracci.
Il corpo viene subito portato a Milano per essere sottoposto all’autopsia e, secondo le prime indiscrezioni, sarebbe stato colpito a morte da sei coltellate. Inizia la “caccia all’uomo”, tutti chiedono punizioni esemplari, ma iniziano anche le domande, a cui nei prossimi giorni, probabilmente, si riuscirà a dare le prime risposte: il corpo era già lì dal 26 novembre, oppure vi è stato portato in un secondo momento? Come mai le ricerche, che pure furono effettuate su quel campo, non portarono alla scoperta del corpo? Yara Gambirasio conosceva l’uomo o gli uomini che l’hanno portata (per stuprarla?) in una stradina adiacente al parco, e che è frequentata abitualmente da coppie, in specie dopo essere uscite dalla discoteca “Sabbie mobili”, che si trova nelle vicinanze? Yara, prima di essere uccisa, ha subito violenza sessuale?
Ma la domanda più difficile, la domanda delle domande, è: cosa spinge un uomo a uccidere una ragazza come Yara e poi lasciarla per mesi a marcire in una landa desolata del Bergamasco? La risposta più difficile e più preziosa, se davvero mai arriverà, arriverà, purtroppo, per ultima.