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 2011  febbraio 27 Domenica calendario

Caso Tortora, dopo 22 anni arriva un’altra ingiustizia - Ventisette anni dopo l’ar­rest­o di Enzo Tortora la secon­da sezione civile del Tribuna­le di Napoli ha condannato Li­no Jannuzzi e Sergio De Gre­gorio a pagare, in solido tra di loro, la somma di 150mila eu­ro, più gli interessi calcolati a partire dal 1991 (in tutto 280mila euro) a favore di Gior­gio Fontana, il giudice istrut­tore che ha gestito l’inchiesta su Tortora e che si era poi di­messo dalla magistratura in polemica con il Csm, che ave­va aperto un procedimento disciplinare su di lui e sui due pm del processo Lucio Di Pie­tro e Felice di Persia ( procedi­menti che poi finirono nel nul­la) e che ora fa l’avvocato a Na­poli

Caso Tortora, dopo 22 anni arriva un’altra ingiustizia - Ventisette anni dopo l’ar­rest­o di Enzo Tortora la secon­da sezione civile del Tribuna­le di Napoli ha condannato Li­no Jannuzzi e Sergio De Gre­gorio a pagare, in solido tra di loro, la somma di 150mila eu­ro, più gli interessi calcolati a partire dal 1991 (in tutto 280mila euro) a favore di Gior­gio Fontana, il giudice istrut­tore che ha gestito l’inchiesta su Tortora e che si era poi di­messo dalla magistratura in polemica con il Csm, che ave­va aperto un procedimento disciplinare su di lui e sui due pm del processo Lucio Di Pie­tro e Felice di Persia ( procedi­menti che poi finirono nel nul­la) e che ora fa l’avvocato a Na­poli. In questa veste Fontana aveva già querelato Lino Jan­nuzzi in sede penale, ne ave­va ottenuta la condanna e ne aveva già riscosso un risarci­mento di diversi milioni di li­re. Sergio De Gregorio, attual­mente senatore del Pdl, è sta­to cronista giudiziario de Il Giornale di Napoli , di cui Li­no Jannuzzi è stato direttore, e in occasione della morte di Enzo Tortora, stroncato dal cancro il 20 maggio 1988, ave­va scritto un articolo su Torto­ra, su Fontana e sul processo. Per quell’articolo l’autore e il direttore del giornale sono stati condannati oggi, venti­due anni dopo. L’INIZIO DELL’INCUBO Enzo Tortora fu arrestato al­le quattro del mattino, men­tre dormiva all’Hotel Plaza di Roma, venerdì 17 giugno 1983. Fu portato in questura e vi fu trattenuto fino alle undi­ci, nonostante fosse stato col­pito da collasso cardiaco, pri­ma di trasferirlo a Regina Coe­li: il tempo necessario perché la notizia del suo arresto si dif­fondesse e si raccogliesse di­nanzi alla questura una folla di giornalisti e di fotografi. L’ordine di arresto per asso­ciazione a delinq­uere di stam­po camorristico era stato spic­cato dalla procura di Napoli sulla base delle accuse partite da due «pentiti», Pasquale Barra e Giovanni Pandico. Pa­squale Barra, detto «’o anima­le », è un feroce assassino, fa­moso per avere ucciso in car­cere Francis Turatello, per avergli sventrato a calci il tora­ce e strappato il cuore per poi mangiarselo. Giovanni Pandi­co «o pazzo», dichiarato psi­colabile e paranoico, è entra­to e uscito dai manicomi giu­diziari, ha sparato al padre, ha avvelenato la madre, ha da­to fuoco alla fidanzata, ha fat­to una strage nel municipio del suo paese, ha sparato al sindaco e alle guardie e ha uc­ci­so gli impiegati che tardava­no a consegnargli il certifica­to di nascita. LA GRANDE RETATA Sulla base delle dichiarazio­ni di questi due «pentiti», ven­nero spiccati 855 mandati di cattura e quel «venerdì nero» vennero arrestati assieme a Tortora 412 presunti camorri­sti (gli altri quattrocento era­no già in carcere). Ma 87 di co­storo saranno scarcerati per­ché arrestati per sbaglio, per «omonimia». Comunque la maggior parte degli arrestati sono personaggi sconosciuti e ignoti. Ma l’operazione vie­ne fin dall’inizio presentata dagli inquirenti, e gonfiata dalla maggioranza dei com­piacenti giornalisti, come una «crociata», la «guerra alla camorra», il colpo mortale in­ferto alla «nuova camorra or­ganizzata » di Raffaele Cutolo. Ma gli inquirenti accredita­no le voci, sempre amplifica­te dai giornalisti, che nella re­te sono caduti personaggi «in­sospettabili ». Quando si tire­ranno le somme si vedrà che codesti «insospettabili» si ri­ducono a una manciata di me­diocri personaggi, quattro o cinque sui quattrocento arre­stati. L’unico personaggio no­to e conosciuto e «insospetta­bile » tra gli arrestati è Enzo Tortora, e questa è la radice delle sue disgrazie e dell’acca­nimento che si scatena con­tro di lui. Ed è la ragione per cui la «crociata», lo storico «processo alla camorra», fini­sce per diventare fatalmente il processo a Enzo Tortora, e come tale verrà vissuto, di­scusso e ricordato. Dopo sei mesi dall’arresto Tortora venne messo a con­fronto con due nuovi «penti­ti »: Gianni Melluso, detto «Cha cha cha», che racconta di aver consegnato a Tortora pacchi di cocaina agli angoli delle strade di Milano, e An­drea Villa, che viene introdot­to nella stanza dell’interroga­torio con la testa coperta da un cappuccio nero e afferma di aver visto Tortora a Milano a pranzo e a cena con Francis Turatello, di cui Villa faceva il guardaspalle. Mano a mano che si va avanti, e tanto più che mancano sempre più i ri­scontri, aumenta il numero dei «pentiti» che accusano Tortora. Alla fine se ne conte­ranno una ventina. I «PENTITI» A COMANDO Michele Morello, il giudice che ha scritto la sentenza con cui in appello Tortora verrà poi assolto, ha severamente censurato il sistema con cui i nuovi «pentiti» venivano am­maestrati. Si procedeva così: si prendevano i presunti «affi­liati » indicati da Barra o da Pandico o da Melluso, e li si rinchiudeva nella stessa ca­serma, la famosa caserma Pa­strengo, dove erano rinchiusi Barra, Pandico e Melluso, e la notte si lasciavano aperte le porte delle celle, in modo che i nuovi arrivati potessero «fra­ternizzare », magari banchet­tando e sbevazzando, con co­loro che li avevano indicati, e questi potessero «ragionare» e istruirli e convincerli ad ac­cusare Tortora. Sui giornali di quei giorni si poteva leggere tranquillamente che per Mel­luso, «Gianni il bello», in ca­serma era stata allestita una specie di garconnière con ra­gazze e champagne. GLI INTERROGATORI Tortora fu interrogato solo dopo settimane di cella di iso­lamento. In tutto lo interro­gheranno per tre volte. Al pri­mo interrogatorio tirano fuo­ri la storia dei centrini: un ca­morrista detenuto, Domeni­co Barbaro, ha spedito dal car­cere a Tortora, perché li mo­strasse ai telespettatori di «Portobello», certi centrini da lui stesso ricamati in cella. Ma i centrini si persero nei meandri della Rai e non furo­no mostrati in video. Spunta­no allora delle lettere di Bar­baro a Tortora in cui il camor­rista si lamenta: rivuole indie­tro i centrini o li vuole pagati. Secondo gli inquirenti è la prova del traffico di stupefa­centi: i «centrini» starebbero per «cocaina». Si scoprirà alla fine che le lettere a «Portobel­lo » per conto di Barbaro le ha scritte Pandico, che è stato Pandico a combinare con Bar­baro il trucco d­ella trasforma­zione dei centrini in cocaina e poi a raccontare la storiella agli inquirenti. Al secondo interrogatorio gli inquirenti si presentano a Tortora, dopo qualche mese, con in mano una «prova schiacciante» della sua affilia­zione alla camorra. Nella agendina sequestrata a Giu­seppe Puca, detto «’o giappo­ne », uno dei più feroci killer di Cutolo, hanno trovato il no­me di Enzo Tortora con due numeri di telefono.A condur­re­l’interrogatorio è personal­mente il giudice istruttore Giorgio Fontana, il cui onore sarebbe stato offeso dall’arti­colo di Sergio De Gregorio sul giornale diretto da Lino Jan­nuzzi in occasione della mor­te di Tortora. Ma un giorno si presenta in procura una si­gnora: mi chiamo Catone As­sunta, dice, e sono la donna di Puca, questa agendina che avete sequestrata a casa di Pu­ca non è la sua ma la mia, pote­te controllare, ci sono i nume­ri dei miei parenti e delle mie amiche, e questi due numeri dove avete letto «Enzo Torto­ra », io ho scritto, la grafia è mia, «Enzo Tortona». È un mio amico di Caserta, il prefis­so è 0823, provate a chiama­re... Al primo interrogatorio hanno scambiato centrini per cocaina, al secondo inter­rogatorio hanno letto «Torto­ra » per «Tortona», al terzo in­te­rrogatorio l’inquisizione na­poletana porta come testimo­ne Gianni Melluso, un balor­do, un ladruncolo di perife­ria, che ha già collezionato un bel po’ di condanne per truffe e rapine, in genere non riusci­te. IL VALZER DELLE SENTENZE È sulla base di «pentiti» co­me questi e delle storie da lo­ro raccontate che, dopo sette mesi di dibattimento e 225 udienze, il 17 dicembre del 1985, due anni e mezzo dopo il blitz del venerdì nero, i giu­dici di Napoli hanno condan­nato Enzo Tortora a dieci an­ni e sei mesi di carcere. Meno di un anno dopo, il 15 settembre del 1986, Tortora è stato assolto in appello con formula piena. Con lui sono stati assolti altri 131 imputati, che con i 102 assolti in primo grado fanno 233 e con i 70 as­solti nel secondo troncone sal­gono a oltre 300, senza conta­re gli 87 «omonimi» arrestati e poi liberati: fanno quasi tre quarti della grande retata. Otto mesi dopo, il 18 mag­gio del 1987, la Cassazione completerà l’opera, confer­mando l’assoluzione di Torto­ra e degli altri 131 e annullan­do un altro po’ di condanne. Nel frattempo Tortora era stato candidato dai Radicali alle elezioni europee, quan­do era ancora agli arresti do­miciliari, ed era stato eletto con 800mila voti di preferen­za, ma si era dimesso, solleci­tando­personalmente dal Par­lamento europeo l’autorizza­zione all’arresto, era tornato in Italia e si era «consegnato» alla polizia a Milano, in piaz­za del Duomo, la vigilia di Na­tale. Un anno dopo la sentenza della Cassazione Tortora mo­rirà, stroncato da un tumore: «In quelle orrende mura del carcere - dirà nell’ultima sua apparizione in televisione col­legato dal suo letto nell’ospe­dale- mi hanno fatto esplode­re una bomba atomica den­tro... ». È il 20 maggio del 1988,e per l’occasione il croni­sta giudiziario de Il Giornale di Napoli , diretto da Lino Jan­nuzzi, ha rievocato le vicende del processo. Ventidue anni dopo altri giudici, sempre di Napoli, hanno condannato il cronista e il direttore a paga­re. INSULTATO ANCHE DA MORTO A Gianni Melluso è andata meglio. Dopo avere calunnia­to impunemente il vivo, pre­se a calunniare il morto. Nel novembre del 1992, quattro anni dopo la morte di Torto­ra, il settimanale Gente pub­blicò una sua intervista sotto il titolo: «Gianni Melluso esce dal carcere e insiste: Tortora era colpevole». Dice proprio così: «Io gli davo la droga e lui mi pagava». Le figlie di Torto­ra sporsero querela per calun­nia. Due anni dopo la pubbli­cazione dell’intervista e la querela, il gip del tribunale ci­vile e penale di Milano Cle­mentina Forleo respinge la querela, condannando le fi­glie di Tortora alle spese pro­cessuali, e motiva: «La senten­za di assoluzione del Tortora rappresenta soltanto la verità processuale sul fatto-reato a lui attribuito e non anche la verità reale del fatto storica­mente verificatosi». Due mesi dopo, l’allora so­stituto procuratore generale della Repubblica a Milano Elena Paciotti, che poi sarà membro del Csm, presidente dell’Associazione magistrati e infine deputato europeo nel­le liste Pd-Pds, respinge l’istanza di apertura del pro­cedimento con questa moti­vazione: «L’assoluzione di En­zo Tortora con formula piena non è conseguenza della rite­nuta falsità delle dichiarazio­ni di Gianni Melluso e di altri chiamanti in correità, ma del­la ritenuta inidoneità delle stesse a contribuire valida prova d’accusa...». L’ULTIMO SFREGIO Nessuno dei «pentiti» sbu­giardati è stato incriminato, processato e condannato per calunnia. Nessuno dei magi­strati che hanno gestito l’in­chiesta è stato inquisito e pu­nito dal Csm. Anzi, hanno fat­to tutti una splendida carrie­ra. Nessun risarcimento è sta­t­o riconosciuto ad Enzo Torto­ra o ai suoi eredi. Anzi, le sue figlie hanno dovuto pagare le spese per la querela fatta a Melluso. I giornalisti (pochi) che hanno raccontato e de­nunciato i misfatti del proces­so sono stati condannati a ri­sarcire lautamente i magistra­ti «per avere offeso la loro re­putazione ».