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 2011  febbraio 27 Domenica calendario

L’ERRORE DI NAPOLITANO (CHE PUÒ ANCORA RIMEDIARE)

Ho l’onore di conoscere il presidente Napolitano da molti anni. Quand’ ero adolescente, venne a Roma da Napoli come capo della sezione culturale del Parti­to comunista. Era stimato fin da allora per la sua pignoleria e per il suo aplomb istituzionale. L’intellighenzia borghese del Pci, che era piuttosto sorniona nonostante il suo plumbeo sta­­linismo togliattiano, lo chiama­va «il Prefetto» e ridacchiava della sua somiglianza con Um­berto II. Lui tirava diritto, fred­do e flemmatico com’è. Nessuna storia personale è senza macchia, nessuna carrie­ra senza errori, ma Napolitano è il tipo ideale del galantuomo meridionale. Quando Berlusco­n­i vinse a sorpre­sa le drammati­che elezioni del 1994, l’allora ca­pogruppo del maggior partito di opposizione tenne alla Came­ra un discorso aperto e respon­sabile, freddo in mezzo alle pas­sioni scatenate. Il Cav. scese dal banco del gover­no, attraversò l’emiciclo e gli strinse la mano, gesto significativo e poco proto­collare. Fece sensazione. Qual­che temp­o dopo proposi al pre­sidente del Consiglio di manda­re Napolitano a Bruxelles come commissario europeo, insie­me con Mario Monti. Se ne di­scusse seriamente, eravamo ar­rivati al punto, ma alla fine quel magnifico tipaccio di Cesare Previti irruppe in una riunione di ministri, a Palazzo Chigi, e con impeto da centurione dis­se rombante la sua: «Napolita­no no». «Perché?», domandai. «Perché è comunista», fu la sua risposta. Chiusa lì. Andò la Bo­nino, che non ho mai capito be­ne che cosa sia.
Cesarone sbagliava. Il pecca­to originale di Napolitano non è il suo comunismo all’italiana, che è ovviamente anche parte di una tragedia mondiale da me condivisa in gioventù, ma l’articolo 68 della Costituzione. Tra il febbraio e l’ottobre del 1993, anno del Grande Terrore giustizialista, quando l’uso bar­barico della carcerazione pre­ventiva assicurò alla galera un certo numero di ladri, ma di­strusse con ferocia selettiva (i sommersi e i salvati si conosco­no) le basi della Repubblica co­­stituzionale, Napolitano contri­buì da presidente della Camera allo smantellamento coatto di un pilastro della politica demo­­cratica, garanzia della divisio­ne dei poteri. I padri costituenti avevano scritto queste parole: «Senza autorizzazione della Ca­mera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamen­to può essere sottoposto a pro­cedimento penale».
I padri, gente del calibro di Moro, Togliatti, La Malfa, Nen­ni, Andreotti, Terracini, Dosset­ti, Meuccio Rui­ni, De Gasperi e molti altri che po­trei citare, non erano stupidi. Sa­pevano che que­sto scudo non avrebbe soltanto difeso i parla­mentari dall’in­quisizione e dal pregiudizio poli­tico, ma poten­zialmente anche da curiosità ine­renti i loro com­portamenti, privati e pubblici, segnati dall’illegalità. Tuttavia vollero che quelle parole così esplicite fossero iscritte nella Carta fondamentale, perché la politica può essere sporca, me­schina, truffaldina, ma niente è più sporco, meschino e truffal­dino della giustizia politica, dell’uso politico della giustizia. L’articolo 68 fu cancellato in un Paese stremato dalla delusione per il cattivo uso dell’immunità da parte delle Camere, e infero­cito oltre ogni misura di miseri­cordia e di equilib­rio contro i re­sponsabili di un declino del pre­stigio e della salute delle istitu­zioni, ma le conseguenze di quella decisione, presa sotto la ferula dei magistrati d’assalto, che si preparavano a correre per il potere candidandosi e for­mando nuovi partiti, sono state disastrose.
Da quasi vent’anni il Paese non respira più, vive in una per­petua apnea giudiziaria. Che voti per Berlusconi o per Prodi, i governi dipendono dal comportamento dell’ordine giudiziario trasformatosi i n potere autonomo e insindacabile in mano a una minoranza attivistica. Reggono o cadono, i governi eletti dal popolo, a seconda della loro forza di resistenza all’iniziativa blindata di alcuni magistrati che affettano di credere in una missione purificatrice di sradicamento del male, ma stringono nel loro mirino il «nemico assoluto» che secondo loro ha corrotto il popolo, intendono correggere o annichilire il giudizio sovrano degli italiani sulla politica. Questa missione reazionaria, codina, antidemocratica, che ha un costo inaudito per l’economia e per la pace civile, è assolta i n forme militanti, passando da una indagine a un talk show dei più facinorosi, da una sentenza a una pressione vociferante e intimidente sul legislatore, sbaraccando lo stato di diritto, la privacy dei cittadini, mettendo in discussione tutto e minacciand o tutti con la sola riserva, quando gli riesce, di selezionare gli avversari e risparmiarne alcuni, pur sempre ammonendoli e impaurendoli, allo scopo di ottenerne l’appoggio politico.
Il presidente della Repubblica è politicamente irresponsabile, ma della Costituzione è custode. Questa non è una questione costituzionale, non riguarda i sondaggi e la volubilità dell’opinione pubblica, la lotta tra i partiti. Questo passaggio lo riguarda direttamente, perché riguarda il tradimento consumato di una Carta in nome della quale si celebrano centocinquant’anni d i Italia unita. Napolitano può dare un grande contributo di persuasione morale e di intelligenza critica alla storia di questo Paese, entrandovi a pieno diritto come u n galantuom o al di sopra delle parti: predicare apertamente, a vent’anni dal tradimento, la necessità di ripristinare il testo mutilato della legge fondamentale dello Stato, e del suo principio cardinale di divisione dei poteri.