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 2011  febbraio 28 Lunedì calendario

ORIZZONTE LAMPEDUSA

Ketef: appuntatevi questo nome. Mentre il mondo segue le convulsioni di Gheddafi e della sua testarda agonia, enormi grumi di uomini taciturni, 50 mila già passati, altrettanti almeno attesi nelle prossime ore, avvolti da tutti i colori della miseria, gettati a mucchi nella sabbia del confine tra Libia e Tunisia.
Lavoratori cacciati dal regime libico, dimenticati da tutti, ripetono: andiamo a Ketef. È una spiaggia, vuota per ora, vicino alla località turistica tunisina di Aziz e alla sua popolazione di pensionati francesi che intiepidiscono al timido sole d’inverno. Ieri le onde del Mediterraneo la sciacquavano, leggere e tranquille, senza una nube che serrasse sotto. Mare buono per navigare, in sette, otto ore di qui si arriva a Lampedusa. Questo è il punto più vicino all’Europa. I contrabbandieri di uomini hanno le barche già pronte, avvertono i militari tunisini, fanno passare in queste ore la voce tra i fuggiaschi: noi siamo pronti, approfittate per tentare. Guidati dall’istinto infallibile delle vittime molti tra loro accetteranno; il sogno libico con gli alti salari è finito, a casa è inutile a rientrare, l’ultima paga portata via da Tripoli servirà a pagare il passaporto per una nuova speranza. Che inizia a Lampedusa. Non essendoci campi, strutture di accoglienza, i militari tunisini ammettono di non essere in grado di controllarli, di rispettare gli accordi con il governo italiano. La rete ormai è stracciata e ha maglie troppo larghe.

Senza che ce ne accorgessimo, Gheddafi ha già scatenato la sua vendetta: ci sta rovesciando addosso il suo popolo di servi licenziati, come una lava incontenibile. Un mondo in marcia che sta già facendo crollare le fragili strutture della Tunisia, il vicino odiatissimo ancora in preda alle convulsioni della sua rivoluzione, da ieri senza governo, con gli spari in piazza e una povertà immensa. Poi toccherà a noi, l’incendio diventa affare nostro, personale.

Siamo da cinque giorni a questo confine e solo ieri l’organizzazione della Grande Carità internazionale ha fatto una apparizione. Timida. Ha ragione la portavoce dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, Liz Ejster, che ha definito quello che sta accadendo «uno tsunami umanitario». Vero. Ma allora perché accorgersene solo ora? Un aereo di cibo e di tende è arrivato ieri all’aeroporto di Djerba. È stata individuata, si garantisce, una zona vicino alla frontiera dove sorgerà nelle prossime ore un campo per diecimila persone, primo rifugio per chi arriva, mentre si organizzano aerei e navi per cercare di riportare questa gente a casa. Ma ci vorranno giorni e il flusso non si ferma.

Per ora c’è il deserto, già macchiato di rifiuti, di bottiglie vuote. Non ci sono tende, non ci sono servizi igienici, non ci sono cucine da campo che forniscano cibo. Ieri il fragile sistema di assistenza imbastito dai tunisini è crollato. Il flusso degli arrivi è così frenetico che non si riesce nemmeno più a registrare i fuggiaschi: provvedevano alcuni scritturali seduti a due tavolini, con fogli di carta e penna biro. Alle prese con migliaia di passaporti e file bibliche. Gli autobus che portavano i rifugiati dal posto di frontiera a qui, trasformati in bolge gonfie di uomini, hanno alzato bandiera bianca. Gli egiziani sono la maggioranza (erano un milione e mezzo in Libia per lavorare). Il loro dolore finora non era fatto di grida, si rifugiava negli angoli, aveva il pudore di non farsi vedere. Ieri hanno gettato via i gesti che esprimevano la stanchezza di una bestia da soma, e si sono ribellati. Non contro i generosi tunisini che hanno fatto il loro dovere verso la sventura altrui. Contro il loro governo che li ha completamente dimenticati.

«Noi egiziani siamo fieri di essere in Tunisia» è scritto su un cartello issato nel campo di accoglienza. Hanno ragione: perché in questi giorni, in questo lembo di deserto, i tunisini stanno dando una straordinaria dimostrazione che la bontà esiste, che i poveri sanno essere generosi verso gli altri poveri. Non potrebbero scrivere: siamo fieri dell’Onu, siamo fieri dell’Europa, siamo fieri dell’America. Perché non c’erano, perché hanno vilmente disertato. Una settima è troppo per vedere, finalmente!, gli eleganti giubbini colorati delle organizzazioni di soccorso in mezzo alle palandrane sudice, alle valigie di cartone, che abbracciano con una atroce tenerezza. Gheddafi ha vinto qui una battaglia, e l’Europa, l’occidente allenati a queste evasioni, l’hanno persa.

Bisognerà scrivere i nomi di questi tunisini generosi, di questi poveri eroi del Bene. Che già si sono messi, i primi, sulla strada della contagiosa epopea rivoluzionaria. Lo meritano, gente qualunque, non professionisti dell’assistenza, non lo Stato ostile e indifferente. Con le loro auto sgangherate, in lunghe file gioiose, cantando sono venuti a loro spese al confine, a raccogliere i profughi in città, prima erano i tunisini, poi gli altri, senza badare a passaporti e nazionalità, hanno portato le loro coperte e i loro materassi per le notti che sono fredde; medici e infermieri sono arrivati, a loro spese, da tutto il Paese per fornire assistenza e medicine, con lunghe carovane pavesate con le bandiere della nuova Libia mescolate a quella tunisina, ingenua e meritata dichiarazione di patriottismo. «Dio è grande» scandivano insieme ai loro assistiti al posto di frontiera, ma non era un grido di fanatici perché in questi giorni nessuno ha sporcato la generosità con bandiere o sigle laiche o religiose. E ancora «gli arabi sono un solo popolo»: torna il panarabismo che ha segnato un periodo fecondo soprattutto di illusioni della storia moderna dei popoli arabi. E che ora viene ridorato dal nuovo smalto di questa rivoluzione maghrebina che s’accende e si riaccende tra Libia e Tunisia.