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 2011  febbraio 26 Sabato calendario

L´INFLAZIONE COLPIRÀ IL POPOLO DEI BOT

Da metà anni ‘90, dopo 20 anni da protagonista, l´inflazione è scomparsa. La "grande moderazione" del periodo non è stata solo appannaggio dei paesi dell´Eurozona, grazie alla moneta unica, e del mondo industrializzato, ma è stato un fenomeno globale: fra i dati sull´inflazione di circa 60 paesi che l´Economist pubblica settimanalmente, si faticava a trovarne due o tre superiori al 4-5%. La grande moderazione si è trasformata addirittura in paura della deflazione quando la crisi finanziaria ha fatto crollare la domanda globale, e in molti paesi la crescita dei prezzi è stata addirittura negativa.
Oggi, la stessa tabella dell´Economist ci dice che l´inflazione è tornata, soprattutto nei paesi emergenti. Si va dal 4,9% della Cina (era 1,5% a gennaio 2010), al 9,7% di India, 10,6% Argentina, 6% Brasile, 9,6% Russia, 7% Indonesia, 5,5% Singapore. I prezzi crescono anche in Europa: 2,4% a gennaio nell´Eurozona (1% un anno fa), con Grecia al 5,2% e Spagna al 3,3%; e 4% in Gran Bretagna. Valori bassi, ma superiori a quel 2%, obiettivo implicito o esplicito di molte banche centrali. Preoccupa la recente accelerazione: negli Usa, l´inflazione rimane all´1,6%, ma è salita dello 0,4% in ciascuno degli ultimi due mesi. Abbastanza perché da più parti si reclami la fine delle politiche di liquidità abbondante a costo zero. È il risultato di un decennio di fenomenale crescita dei paesi emergenti, che ha causato un altrettanto fenomenale rialzo del prezzo di tutte le materie prime, non solo petrolio e derrate alimentari: dal 33% al 40% (in dollari, a seconda dell´indice) la crescita annuale a gennaio. Rialzo che continua da quasi un decennio, salvo una breve pausa per la crisi nel 2008, con una crescita media annua di circa il 20%: ovvero 10 volte quella dei prezzi di beni e servizi nel mondo occidentale. I paesi emergenti, quindi, che tanto hanno contribuito alla grande moderazione nel mondo, grazie all´effetto calmierante sui prezzi dei loro prodotti a basso costo, si sono trasformati in esportatori di inflazione.
Il pericolo dunque viene da fuori. Lo dimostra la quasi stabilità del costo della vita, una volta escluso l´impatto di petrolio e beni alimentari, in crescita di appena lo 0,9% negli Usa e 1,1% nell´Eurozona e UK. Il rischio, pertanto, dipende dalla capacità e volontà dei paesi a forte crescita di controllare l´inflazione a casa loro. Lo scetticismo è d´obbligo: facile ipotizzare che prevarrà il timore di causare brusche frenate alle loro economie, per non frustrare le aspettative di benessere alimentate nelle loro popolazioni. La domanda è se questa ondata di inflazione esterna possa indurre un aumento generalizzato dei prezzi nel mondo occidentale. Non credo, per ora. Non perché conti sulle autorità monetarie, che mantengono a galla il sistema finanziario privato e pubblico, e saranno perciò vincolate a bassi tassi e liquidità abbondante ancora per molto. Ma perché la quantità di risorse produttive che rimangono inutilizzate minimizzano la possibilità di una rincorsa salariale e la capacità delle imprese di aumentare i listini. Inoltre, a differenza degli anni ‘70 e ‘80, gli investitori detengono montagne di titoli di debito a lungo termine dal valore nominale fisso, e cercheranno di non farsi espropriare della loro ricchezza dall´inflazione. Tra inflazione e stagflazione (rallentamento con un innalzamento del livello dei prezzi), è forse quest´ultimo il rischio maggiore che corriamo. In entrambi i casi, l´allocazione della ricchezza finanziaria degli italiani appare eccessivamente sbilanciata verso le obbligazioni. Una scelta a volte giustificata dagli elevati rendimenti ottenuti coi titoli di debito negli ultimi 15 anni, specie in rapporto al capitale di rischio. Ma erronea: quella fase storica non è ripetibile. Non ci sarà più l´euro o la grande moderazione a ridurre l´inflazione attesa, generando così un aumento del valore del debito. L´inflazione è già bassa. E poiché una deflazione alla giapponese non è plausibile, i tassi sulle obbligazioni, al netto dei costi e rischio di default, offriranno rendimenti risibili. E diventeranno abbondantemente negativi se prevarranno stagflazione o inflazione.