Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 27/02/2011, 27 febbraio 2011
L’ORO DEL TIRANNO E LE ANIME BELLE
Rispetto alla guerra civile che insanguina Tripoli e Bengasi, le relazioni economiche tra Italia e Libia pesano poco. E tuttavia illuminano una questione non secondaria: la miopia, talvolta interessata, dei globalizzatori. Il do ut des è sotto gli occhi di tutti. La Libia dà il 24%del petrolio che ci serve e il 12%del gas. Negli anni 70 sottoscrisse un aumento di capitale di 470 miliardi di lire che salvò la Fiat; nel 2008 e nel 2009 investì oltre 600 milioni di euro in due emissioni Unicredit, la prima cruciale nel dopo Lehman. Si parla anche del 7,5%di Juventus e del 2%di Eni e Finmeccanica, ma si tratta di azioni acquistate in Borsa, senza benefici per le imprese. Dalla Libia ci vengono commesse per 2,5 miliardi. E, singolare outsourcing del Viminale, la sua polizia blocca l’immigrazione clandestina verso la Sicilia dei disperati che dal cuore dell’Africa affluiscono sulla costa sud del Mediterraneo. In cambio, secondo fonti aziendali, l’Eni lascia a Tripoli 3 miliardi di dollari l’anno tra quote di produzione e tasse, oltre al risarcimento dei danni di guerra di 5 miliardi in 20 anni, che il governo le ha accollato con una legge «ad aziendam» . L’Eni era sbarcata negli anni 50 in Nord Africa, sostenendone il nazionalismo anticolonialista. Una scelta che sposava la solidarietà resistenziale di Enrico Mattei all’obiettivo strategico di emancipare l’Italia dal giogo energetico delle Sette Sorelle. Ma il nazionalismo arabo si è poi cristallizzato in dittatura; le compagnie statali dei Paesi petroliferi hanno ridimensionato il ruolo mondiale delle Sette Sorelle e pure dell’Eni; banche centrali e fondi sovrani di colonnelli e sceicchi sono diventati investitori blanditi dall’Occidente in cerca di capitali. Aurum non olet, si dice. Anzi, l’oro del tiranno ha l’afrore maschio del libero mercato. Berlusconi ha ecceduto? Sicuro. Ma, sia pure con altro senso del limite, anche Prodi, D’Alema, Dini e Andreotti hanno coltivato Muammar. E il banchiere Geronzi poteva non accreditare i colleghi libici su Unicredit? Avrebbe dovuto. E Tronchetti Provera avrebbe fatto meglio a non farsi advisor del regime. Ma che dire anche del banchiere Profumo che prendeva sul serio le distinzioni tra Bank of Libya e Libyan Investment Authority per giocarsele contro le fondazioni? L’autonomia del management valeva la messa? Adesso le anime belle della globalizzazione si sfilano. Contestualizzano. Ma non ammettono di aver sbagliato a bollare chi invitava a contenere i libici entro i limiti statutari di Unicredit come nemico del mercato e amico delle fondazioni bancarie, peggiori, nella vulgata liberista, dei fiduciari del Colonnello. Di che cosa parlava la finanza nostrana e non? Della libertà dei capitali come se fosse quella delle persone. Ha celebrato, la finanza globale, l’ultimo rito del colonialismo che pretende di pagare la bella vita dei primissimi tra i primi con le risorse degli ultimi, rapinate dalle loro feroci oligarchie. La storia sta presentando il conto alla nostra realpolitik. E noi europei, orfani delle dittature e impauriti dai migranti, litighiamo su chi lo debba pagare.
Massimo Mucchetti