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 2011  febbraio 26 Sabato calendario

L’ultimo flash prima di morire - Weegee scrive come fotografa: spontaneo, immediato, sentimentale, cinico, brutale

L’ultimo flash prima di morire - Weegee scrive come fotografa: spontaneo, immediato, sentimentale, cinico, brutale. La sua autobiografia Weegee di Weegee , scritta a sessant’anni suonati, è un perfetto concentrato della sua filosofia visiva. Scritta in modo brioso, scanzonato, senza troppi peli sulla lingua, racconta la carriera di uno scapestrato ragazzino, degno delle bande di New York, che dal ghetto degli emigranti dei Paesi dell’Est, il Lower Est Side, scala pian piano i palazzi del giornalismo e arriva alla fama come fotografo, pur sempre free e controcorrente. L’attacco del libro è accattivante: «La macchina da scrivere è rotta, non possiedo un dizionario e ho mai sostenuto di conoscere l’ortografia…». Vi dichiara l’assoluta mancanza d’inibizioni, sia a scrivere sia a fotografare, e ci racconta come da venditore di caramelle sia diventato il fotografo per eccellenza degli anni della Grande Depressione, uno dei campioni del fotogiornalismo, quello assolutamente privo di scrupoli che non ha altro scopo che scattare foto che colpiscono, e non certo che convincono o commuovono o inteneriscono, o sono cariche di ideologie umanitarie. Weegee è fin troppo umano, ma la sua umanità la spende per guardare senza pietà in faccia quello stesso mondo da cui viene lui, fatto di piccoli truffatori, ragazzini borderline, gangster, prostitute, uomini e donne privi di angustie: l’umanità che vive e muore in un istante, legata all’attimo fuggente che la sua macchina coglie al volo, senza pudori o vergogne, a colpi di flash. In questo senso l’austriaco di nascita Arthur H. Felling, detto Weegee, è un caso paradigmatico di come la fotografia prima che arte sia un modo di vedere il mondo, gli uomini e soprattutto le relazioni tra di loro. Weegee si lascia condurre dal suo istinto, da quello che in letteratura si chiama ispirazione, cui unisce una certa esperienza della strada e del crimine, per cogliere al volo non solo i delitti, i suicidi, gli incidenti stradali, gli arresti e le retate, i barboni e gli ubriachi, ma in che modo le persone si relazionano con questa umanità liminare sempre in bilico tra legalità e illegalità. Si può ben dire, leggendo queste pagine vorticose, piene di humor e sarcasmo, naturali e sincere sino alla nausea, che a Weegee interessi lo spazio che si crea attorno alle persone, sia quelle morte sul selciato sia quelle custodite dentro un cellulare. Il delitto è il suo mestiere perché il delitto gli permette di mantenere una condizione di partecipazione, e insieme di estraneità. Guardando le foto di questo reporter di strada si ha la sensazione che sia stato lui ad architettare l’omicidio, a disporre il cadavere sulla strada, e che subito si sia allontanato, per fotografare da estraneo la scena; e tuttavia nello scatto resta qualcosa della sua partecipazione al delitto ritratto. I morti, ma anche le povere prostitute, i ragazzini che sorridono o guardano, appartengono a lui, sono parte di lui: si riconosce in quello che ritrae. Per questo Weegee, a differenza di altri fotografi del periodo, specializzati nelle medesime scene straordinarie, è speciale. Tutto in lui è movimento, sia nella posa sia nella ripresa. In movimento, e al tempo stesso fermo, perché Weegee è questo paradosso d’instabilità: tende a fissare - anche nella sua autobiografia ha la tendenza a fissare - e nel contempo è già in fuga. Un’irrequietezza che egli ben racconta attraverso l’ossessione del denaro, la paga settimanale, che è a un tempo il motore e l’indicatore del suo stato d’agitazione. Intollerante, irrequieto, instabile, Weegee si muove da uno studio fotografico all’altro; cambia continuamente lavoro, fino a che non trova il suo luogo perfetto: in una stazione di polizia e in una macchina, la sua, che impara a guidare solo dopo qualche tempo. Un uomo così non ha, né avrà mai, una vera casa, ma solo una tana. Weegee - il soprannome indica un tavolino di sedute spiritiche dell’epoca - è un animale. Somiglia a un corvo o una talpa, quella kafkiana, per intenderci, salvo che in lui la cecità non è quella visiva, bensì quella intellettiva. Egli sente quello che accade, che accadrà, dove accadrà; prima ancora di vedere sa con l’istinto, per questo la sua fotografia non ha niente di mentale. Piuttosto acceca, dato che il principale strumento con cui scatta è il flash, e mediante cui accentua la brutalità della visione. L’autobiografia è un capolavoro d’istintività e insieme un documento d’epoca. A un certo punto, dopo aver fatto il fotografo free lance per giornali e riviste, mette insieme un libro, Nat City , uscito nel 1945. Con questo e quello seguente Weegee’s people , diventa celebre. Così comincia la seconda parte della sua carriera, a Hollywood come consulente di produttori, autore di film, poi in Europa, dove si trasforma in una leggenda vivente. Invece dei barboni comincia a fotografare gente illustre, uomini e donne del jet set, ma la sua capacità sarcastica di abbassare e innalzare derelitti e potenti non cambierà per nulla. Da allora la fama comincerà a seguirlo, e lui a fuggire, adelante .