Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 25/02/2011, 25 febbraio 2011
LAVORATORI STRANIERI, UN ESERCITO IN FUGA —
La bandiera verde della Jamahiriya di Gheddafi ieri è stata ammainata anche nella cittadina di Nalut, a 60 chilometri dalla frontiera tunisina di Dehibah. Non ci sarebbero disordini, i ribelli sembrano avere il controllo delle strade. Ma una cosa è certa: il lavoro è finito. Henry Yin, 23 anni, cinese nato a Pechino, professione «coordinatore» e «traduttore» , aspetta con altri 79 connazionali sullo spiazzo della dogana, in attesa di entrare in Tunisia. Sono rilassati, tranquilli. Lavoravano per una fabbrica di cemento, di proprietà della società di Stato cinese Cnbm. Il governo di Pechino, non appena il Colonnello ha cominciato a traballare, ha deciso di mollare tutto e di riportare a casa i dipendenti. Poco più in là, mentre i cinesi adesso sembrano liceali in gita e posano addirittura per una foto ricordo con i doganieri tunisini, il turco Emir Gezmen, anche lui ventitreenne, affretta il passo, trascinandosi un borsone di plastica sformato da scarpe e vestiti, insaccati alla rinfusa. È tutto quello che rimane della sua vita di ristoratore, in un Kebab di Nalut.
Dal cemento alla rosticceria, dalla Cina alla Turchia. L’economia libica si sta squagliando. Il Paese sprofonda e, a questo punto, è inevitabile domandarsi quanto possa resistere il Colonnello sotto assedio, per quanto seduto su una montagna di armi. La linfa vitale fuoriesce dai valichi della frontiera occidentale, Ras Jedir (il più trafficato) e Dehibah, 120 chilometri più a Sud, a un passo dal deserto del Sahara.
Le grandi compagnie petrolifere (Eni, Total eccetera) hanno bloccato le attività, ridotto gli organici di qualche migliaio di europei all’essenziale. In attesa di riprendere come prima. Invece lasciano forse per sempre un Paese che ancora qualche mese fa esercitava un richiamo unico, centinaia di migliaia di operai, tecnici, camerieri, ristoratori, muratori, elettricisti, parrucchieri. Uomini e donne provenienti, davvero, da mezzo mondo.
Da queste parti è meglio andarci piano con le cifre. Fonti di varia natura segnalano che sarebbero circa 10 milioni i lavoratori stranieri, a fronte di una popolazione di 6,5 milioni. Fossero anche due o tre, i milioni, è evidente che, per come è costruito, il sistema libico non può fare a meno, per esempio, della manodopera dei centroafricani, sudanesi, ciadiani, nigeriani che lavorano (a centinaia di migliaia) in tutti i settori produttivi del Paese, a cominciare dal petrolio.
Ma anche qui la Cina avanzava al galoppo. Gli 80 dipendenti della cementeria di Nalut sono solo una piccola avanguardia dei 30 mila cinesi, tra operai specializzati, tecnici e ingegneri, dislocati in Libia. «Lavoriamo per brevi periodi, poi arrivano altri colleghi a darci il cambio, così è più facile accettare un impiego in un Paese tanto diverso dal nostro» , spiega Dawid («è il mio nome in inglese, io vengo da Pechino» ). I tunisini che aspettano oltre la sbarra per portarli, «gratis si intende» , nei posti di accoglienza allestiti nei villaggi dell’interno, li chiamano «i coreani» . Tutti gli asiatici per loro sono «coreani» . In realtà, su un totale di circa 70 mila lavoratori, la maggior parte viene dalla Cina, appunto, dalla Thailandia (23 mila) e dal Vietnam (10 mila).
I turchi come Emir sono, invece, 25 mila. Secondo le stime aggiornate a ieri, se ne sarebbero già andati in cinquemila. Non salta solo il Kebab. «Sono un ingegnere meccanico di 45 anni, sono nato a Istanbul, lavoravo da un anno in un ospedale di Ghadamis (la città sull’antica rotta degli schiavi all’incrocio con Tunisia e Algeria, ndr)» . Niente nomi, solo l’assicurazione che non tornerà mai più qui e lo dice indicando la moglie e la figlia di 3 anni.
L’altro ieri, invece, alla frontiera di Ras Jedir, i comuni cittadini che si sono messi in fila, nell’ospedale di Zarzis, per donare il sangue ai «fratelli tunisini, egiziani o libici» , confortavano l’imprenditore Saber Aissa, 31 anni, titolare a Bengasi della società Lola Dahabia, specializzata nel trading di prodotti agroalimentare, latte e yogurt soprattutto. «Ho perso tutto, me ne torno a Sousse» , la cittadina sulla costa più sviluppata, tra Hammamet e Monastir. Forse Aissa ce la farà a ripartire «Forse— dice— ma per i miei duecento dipendenti non vedo futuro. Con me lavoravano tunisini, sudanesi, egiziani» . Poco più in là, da un gruppetto di una dozzina di muratori di Kasserine, il paese della Tunisia interna e profonda, da cui è cominciata, alla fine di dicembre, la «rivoluzione dei gelsomini» che ha cambiato la geopolitica del mondo arabo. «Niente— interviene Ahmed, 26 anni— non faranno niente. Chi ha perso il lavoro in Libia non ne troverà un altro. Sicuramente non qui» . Nei cantieri, nelle poche manifatture e nelle numerose attività commerciali lavoravano circa 80-100 mila tunisini. Stanno tornando a casa in massa: a migliaia ogni giorno (ieri grande traffico) dal confine di Ras Jedir. Rientrano in un Paese libero, ma instabile e con le gomme a terra. Che cosa faranno? Per il momento andranno a tenere compagnia ai disoccupati nei bar del Paese, che si somigliano tutti e sono sempre pieni. Dall’Avenue Bourguiba di Tunisi al Cafè du Marché di Medenine, poco lontano dal confine, dove i giovani, «tutti» i giovani, diplomati e laureati compresi, si alternano con sedute di tre ore alla mattina e tre ore al pomeriggio.
Inevitabile che la maggior parte di loro si informi sugli «orari» dei barconi in partenza per Lampedusa.
Giuseppe Sarcina