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 2011  febbraio 28 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 28 FEBBRAIO 2011

La Libia di Gheddafi, «diventato ormai il sindaco di Tripoli» (Guido Olimpio [1]), è a un passo dalla guerra civile e la capitale rischia di trasformarsi in una moderna Stalingrado, con migliaia di miliziani lealisti pronti a difenderla. [2] Al regime «resta solo Tripoli ma la Capitale è grande. Vedo nuvole nere all’orizzonte», ha spiegato il vescovo, monsignor Giovanni Martinelli. [3] Domenico Quirico: «Il potere si esercita ormai solo nella capacità di far colare il sangue del suo popolo, nell’imporgli lo spietato lenocinio della sventura. Ma, come Saddam, Gheddafi vuole infiggere come un chiodo la sua fine nel corpo vivo dell’Occidente che lo ha abbandonato». [4]

Spaccata in due, la Libia riporta sulle cartine geografiche le province di romana memoria della Cirenaica e Tripolitania: la prima, nell’est del paese, sembra essere stata del tutto liberata dal controllo del regime, nella seconda ancora si combatte. Roberta Zunini: «Se anche la maggior parte dell’ovest (la Tripolitania) è passata agli insorti è perché l’esercito non è più compatto e ci sono state molte defezioni. Ma è l’aviazione la forza più importante di un paese in guerra. E questa sembrerebbe ancora saldamente nelle mani del dittatore. La spiegazione di questa fedeltà è nell’appartenenza dei vertici dell’aviazione alla tribù dei Qud, di cui fa parte anche Gheddafi». [3]

Nessuno crede più a una soluzione all’egiziana o alla tunisina. [5] Franco Venturini: «In Libia si teme che lo Stato si spacchi in due, si paventa che la sua struttura tribale e clanistica impedisca per molto tempo la stabilizzazione, si pensa che non esista una istituzione (come le Forze armate) abbastanza forte e unitaria da prendere il potere e tenerlo dopo che Gheddafi sarà caduto per soffocamento geografico». [6] Le tribù libiche sono oltre un centinaio, detto dei Qud, le principali sono i Warfalla (occupano il Gebel a sud di Tripoli e si estendono con i clan a loro federati fino a tutto l’ovest; confine tunisino); i Meqhara (al centro); gli Zuwayya (nell’est, in Cirenaica); i Tebu (sud); i Tuareg (sud-ovest, confine con l’Algeria). Il loro obiettivo è la fine dello stato unitario? Marco Guidi: «La cosa non dovrebbe verificarsi se il colonnello sarà abbattuto. I clan conoscono fin troppo bene il valore del petrolio e degli scambi con il mondo per privarsene o frazionarli». [7]

Forse è troppo tardi, ma venerdì notte Saif Gheddafi ha dimostrato che il rais avrebbe potuto passare la mano al secondogenito: «Noi abbiamo trattato per anni con le grandi potenze, sappiamo bene come lavorare col Consiglio di sicurezza, con America e Francia. Anche questi Paesi sono sotto influenza di questa grande campagna mediatica costruita contro la Libia. Io dico solo una cosa: dovranno verificare cosa è successo per davvero in Libia, dovranno mandare una missione che elenchi i fatti, ristabilisca la verità, che racconti per davvero cosa è successo in questi giorni». [8]

Prima di aver perso la guerra sul campo, Gheddafi sembra aver perso la guerra dell’informazione. [9] Vincenzo Nigro: «Troppo tardi il regime si è accorto di alcuni errori, tra cui quello degli ultimi giorni: aver provato a tener fuori i grandi media stranieri, le odiate Al Jazeera e Al Arabiya. Dovevano evitare piazza Tahrir, ma è stato un autogol. Dall’estero, parlando al telefono con i libici, inventando e ingigantendo quello che è successo per davvero, i network arabi hanno accelerato la decomposizione del regime. Non è vero che i cacciabombardieri abbiano colpito indiscriminatamente i quartieri di Fashlun, Siahia, Gerganesh: abbiamo visto, ci siamo fatti raccontare le case, le strade, e non ci sono i segni dei bombardamenti». [10]

«Fosse comuni? Diecimila morti? Cinquantamila feriti? Bum!». Angelo Del Boca, “biografo” di Gheddafi: «Ma ci rendiamo conto di quel che vuol dire cinquantamila feriti? Non basterebbero tutti gli ospedali del nord Africa. Son balle». [11] Luigi Geninazzi: «Il bilancio di 10 mila morti sarebbe stato riferito da un membro della Corte penale internazionale che però ha subito smentito Al-Arabiya, costretta a fare retromarcia. Venerdì un suo inviato ha ammesso che “a Tripoli ci sono stati scontri fra dimostranti e polizia ma nessun raid aereo”, contrariamente alle informazioni diffuse in precedenza anche da Al-Jazeera, l’altra grande tv del mondo arabo, spesso accusata di fomentare la rivolta contro i regimi del Maghreb. È un meccanismo perverso che tende a ingigantire e a demonizzare oltre ogni misura quel che sta succedendo, come se la realtà non fosse già abbastanza tragica». [12]

Più di Facebook e Twitter, la rivoluzione pan-araba dipende da al-Jazeera. Ugo Tramballi: «Se le migliaia di ragazzi di Facebook sono diventati milioni è perché le loro gesta sono state raccontate e amplificate dalla prima televisione globale del mondo arabo. La stessa che aveva narrato tutte le ultime guerre mediorientali, per la prima volta da una prospettiva araba e non anglosassone. “Tutto questo rumore da una scatola di fiammiferi?”, si era chiesto Mubarak quando andò in Qatar a visitare il quartier generale di al-Jazeera, allora poco più di quattro stanze e uno studio. Mubarak non poteva prevedere che sarebbe stato quel Nasser elettronico a spazzarlo via». [13]

Perché i media arabi, e prima di tutti due emittenti televisive molto popolari come al-Jazeera e al-Arabiya, avrebbero dovuto attaccare Gheddafi? Saif: «Sono strumento di una grande cospirazione di Paesi arabi contro di noi, vi dirò presto chi. Non hanno capito che stanno favorendo la creazione di un Afghanistan in riva al Mediterraneo». [8] Karima Moual: «Gheddafi si è riproposto all’occidente come l’argine al fantasma bin Laden, il simbolo per eccellenza del terrorismo e del fondamentalismo islamico. È sempre stata la carta vincente, per i dittatori, nascondersi dietro quest’alibi e assicurarsi l’eternità. Ma nelle piazze del mondo arabo che provano a prendere possesso del proprio futuro bin Laden non c’è». [14]

Spauracchio usato dalla propaganda gheddafiana, l’ipotesi dello “Stato islamico” non è infondata, ma al momento la Bengasi liberata è saldamente nelle mani dei “laici”, guidati dal generale Abdelfatah Jounis. [5] Mohammed Manafee, professore di Sociologia a capo della rivolta che ha preso il controllo della parte orientale del Paese: «Il nuovo presidente libico sarà scelto dal popolo appena Tripoli cadrà e appena potremo indire le nostre prime elezioni libere. In Libia c’è tutto da fare, tutto da costruire. Da quarantadue anni viviamo nel più assoluto vuoto costituzionale. La prima Carta libica, quella promulgata nel 1951, all’indomani dell’indipendenza, fu abrogata quando Gheddafi salì al potere nel 1969». [15]

Pur di salvarsi Gheddafi sembra pronto a tutto. [15] Vittorio Zucconi: «Le domande che oggi si impongono sono: intervenire o no? Fare un’altra guerra, magari “umanitaria” o no?». [16] L’Ue pensa ad embargo sulla vendita di armi e congelamento dei beni di Gheddafi e famiglia, manovra quest’ultima già varata dalla Casa Bianca. Sabato l’Onu ha votato una risoluzione che prevede embargo militare e sanzioni finanziarie. Francia e Gran Bretagna chiedono che la Libia venga portata davanti alla Corte internazionale dell’Aja per “crimini contro l’umanità”. [17] Sabino Cassese: «Almeno per ora, la via giudiziaria sembra dunque rimanere quella preferita dai diplomatici e dai politici. È una soluzione che ha il demerito di non fermare subito le atrocità, ma di arrivare ex post, dopo cioè che i massacri sono già avvenuti». [18]

La reazione della comunità internazionale ai rivolgimenti in Tunisia, Egitto e Libia ricorda quella del 1992-93 nei confronti della ex Jugoslavia. Cassese: «L’Onu, almeno per ora, non è capace di adottare sanzioni efficaci e tanto meno di imporre con la forza il rispetto dei diritti umani e dei principi democratici». [18] Zucconi: «Anche nella Jugoslavia disintegrata, che sul Mediterraneo orientale si stendeva, era una macelleria etnica interna: eppure l’America lontanissima, poi la Nato e l’Europa, ne furono risucchiati, generando quella dottrina dell’“intervento umanitario” che da allora significa nulla e dunque tutto». [16]

La guerra alla Serbia nacque con la motivazione di salvare i poveri kosovari. Andrea Nativi, analista militare e direttore della Rivista italiana difesa: «È andata a finire che siamo rimasti lì dal ’99 a oggi. S’immagini i governi che voglia hanno di impelagarsi in una roba simile avendo l’Afghanistan in corso». [19] I mezzi e le risorse perché la Nato agisca, anche subito, ci sarebbero, a cominciare dalla forza aeronavale Active Endeavour, già presente nel Mediterraneo. Prima del vertice di venerdì il segretario Anders Fogh Rasmussen ha parlato di «priorità delle operazioni di evacuazione», e «possibilmente anche dell’assistenza umanitaria» aggiungendo che la Nato può agire «come coordinatore se e quando uno Stato membro individuale vuole agire». Luigi Offeddu: «Ma si cammina su un filo: i confini fra un’iniziativa del genere e un’azione militare vera e propria potrebbero essere labili». [20]

Deciso a usare le ultime risorse militari, Gheddafi potrebbe far strage di oppositori e distruggere i pozzi petroliferi usati dall’Occidente. Una “no fly zone” simile a quella adottata nel 1991 in Iraq per fermare la strage di curdi e sciiti non basterebbe a sventare la doppia minaccia. Micalessin: «La “no fly zone” non garantirebbe la sicurezza dei pozzi. Per difenderli bisognerebbe pensare al dispiegamento di forze speciali da sostituire poi con reparti regolari per permettere il ritorno al lavoro del personale internazionale. Piccoli contingenti di “incursori” sono forse già all’opera per individuare e distruggere i depositi di gas nervini e di iprite». [21] Olimpio: «Necessario anche l’intervento di nuclei di commandos che “illuminano” i bersagli. Rischi: sono altissimi. Intanto perché vorrebbe dire un coinvolgimento diretto nel conflitto. Inoltre non è facile distinguere, specie nei centri abitati, le forze amiche da quelle ostili, i combattenti dai civili inermi». [1]

Che bisognerebbe fare dopo l’eventuale sbarco? Nativi: «Dobbiamo prendere Tripoli e Bengasi? O fermare gli scontri in tutto il Paese? Beh, in Kosovo c’erano 50mila soldati Nato. Quindi, prima di parlare di scenari militari per cortesia qualcuno dica cosa si vuole fare, poi si può parlare di cosa serve». Il rischio Libia non si esaurirebbe comunque con l’uscita di scena di Gheddafi. [19] Micalessin: «Bisognerà attendere la nascita di un governo in grado di garantire ordine, sicurezza ed integrità politica del paese. Quella nascita non è né scontata né immediata. Nel frattempo bisognerà impedire il divampare di scontri etnico tribali simili a quelli che trasformarono la Somalia in un inferno alla mercè di pirati, predoni e terroristi “alqaidisti”». [21]

Note (tutte le notizie sono tratte dai giornali del 26/2): [1] Guido Olimpio, Corriere della Sera; [2] Guido Ruotolo, La Stampa; [3] Roberta Zunini, il Fatto Quotidiano; [4] Domenico Quirico, La Stampa; [5] Giordano Stabile, La Stampa; [6] Franco Venturini, Corrie della Sera; [7] Marco Guidi, Il Messaggero; [8] v. n., la Repubblica; [9] Maurizio Matteuzzi, il manifesto; [10] Vincenzo Nigro, la Repubblica; [11] Luciano Gulli, Il Giornale; [12] Luigi Geninazzi, Avvenire; [13] Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore; [14] Karima Moual, Il Sole 24 Ore; [15] Pietro Del Re, la Repubblica; [16] Vittorio Zucconi, la Repubblica; [17] Angelo Acquaro, la Repubblica; [18] Sabino Cassese, la Repubblica; [19] Paolo M. Alfieri, Avvenire; [20] Luigi Offeddu, Corriere della Sera; [21] Gian Micalessin, Il Giornale.