CLAUDIO P AVONE, La Stampa 25/2/2011, pagina 42, 25 febbraio 2011
Roma capitale l’occasione perduta - Il testo che anticipiamo in questa pagina è tratto dall’introduzione scritta da Claudio Pavone per il suo libro Gli inizi di Roma capitale , in uscita da Bollati Boringhieri (pp
Roma capitale l’occasione perduta - Il testo che anticipiamo in questa pagina è tratto dall’introduzione scritta da Claudio Pavone per il suo libro Gli inizi di Roma capitale , in uscita da Bollati Boringhieri (pp. 320, 16), che ripropone tre saggi di oltre mezzo secolo fa, quanto mai attuali nel 150˚ anniversario dell’Unità, su Roma e il Lazio nel 1870. Pavone, che lo scorso autunno ha compiuto 90 anni, è uno dei maggiori storici italiani. Dopo avere partecipato alla Resistenza, è stato a lungo funzionario degli Archivi di Stato e ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Pisa. Il suo libro più celebre, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (uscito da Bollati Boringhieri nel 1991), ha infranto un tabù, chiamando per la prima volta con il suo nome quel che accadde in Italia tra il 1943 e il ’45. Vent’anni fa ne seguì un vivace dibattito Quali erano le prospettive che si aprivano a Roma divenuta capitale d’Italia? E quali conseguenze avrebbe avuto per l’Italia avere una capitale tanto ingombrante? L’ odi et amo degli italiani per Roma è sintomo delle difficoltà che incontrarono i contemporanei a rispondere con coerenza a questa doppia domanda, difficoltà ancora oggi tutt’altro che scomparse. Innanzi tutto: benché politicamente sconfitti, gli antiromani non scomparvero. Molte loro idee, molti sentimenti e risentimenti continuarono a circolare apertamente e ancor più sotterraneamente. Il rozzo culto della romanità imposto dal fascismo, nato peraltro a Milano, alimentò la strisciante antipatia verso Roma, esplosa aggressivamente in questi ultimi anni. Roma capitale, ha scritto Chabod [ Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 ], se al Sud fu vista come fine dell’egemonia piemontese, al Nord fece nascere la paura della fine del predominio subalpino. La meridionalizzazione della burocrazia, fenomeno nazionale come quello del parallelo accrescersi delle funzioni statali, trova la sua spiegazione nella storia d’Italia e ben poco in quella di Roma, che vi rivelò la sua capacità di accogliere gli immigrati del Sud come in una prima fase aveva accolto quelli, in minor numero, del Nord. Roma verrà così risucchiata nella questione meridionale tanto che oggi, nella corrente opinione settentrionale, Roma viene collocata nel Mezzogiorno, e non in un Centro mal definito in cui si salva con sicurezza solo la Toscana. Ancora Chabod, che scriveva nel 1951, sottolineava «il correlativo ritrarsi dei settentrionali dalle carriere statali» da cui nacque «quel dissidio, profondo anche se non sempre espresso, fra paese “produttore” e burocrazia o, come si è sentito dire, paese “improduttivo”; dissidio analogo a quell’altro fra paese legale e paese reale, di cui tanto si disse e si scrisse dopo il ’70, meno grave certo ma non senza pericoli anch’esso, come che abbia spesso fatto riaffiorare contrasti regionalistici e accuse e polemiche reciproche fra il Nord […]e il Sud». Roma è insieme il simbolo e il punto di arrivo di questo complesso percorso che l’ha profondamente mutata. Più in generale: i limiti e i difetti di Roma capitale discendono tanto dal secolo e mezzo di storia dell’Italia unita quanto dalla vischiosa storia millenaria di Roma stessa. Nel 1870 fu a Roma assegnata da Quintino Sella la missione di capitale della scienza, poi dalla città solo parzialmente onorata. Ma una città moderna, come anche Sella si augurava che Roma diventasse, non può acquisire questa fisionomia senza essere anche una città modernamente produttiva. Per la cultura positivistica, cui Sella apparteneva, progresso e industria andavano di pari passo, come dimostravano i modelli inglese e francese e la promettente rincorsa tedesca (sempre nel 1870 Berlino diventa una grande capitale economicamente in sviluppo). Nella nuova condizione politica, che non avrebbe dovuto porre impacci alle iniziative produttive, si nutriva una ostentata fiducia nel fatto che le leggi economiche avrebbero finalmente potuto funzionare anche a Roma e nel Lazio. Ma lo stesso Sella non voleva nella capitale una «soverchia agglomerazione di operai», dichiarando nel 1874: «Roma deve concentrare tutte le forze intellettuali del paese; ma non sarebbero opportuni gli impeti popolari di grandi masse di operai […]. Io penso che debba spingersi la produzione e il lavoro, sotto tutte le forme, nelle altre parti del regno». [...] Se si può azzardare un’immagine sintetica dopo le centinaia che ne sono state date, Roma è una città che in prima istanza viene descritta e giudicata per quello che più colpisce il visitatore. Essere visitata è per Roma una delle principali risorse. Ma ancora più essenziale è cogliere il senso della vita che vi svolgono i romani. È per questo che la maniera in cui è avvenuto il grande sviluppo cittadino – dai 228.000 abitanti del 1870 ai 3 milioni di oggi – è di grande importanza dal punto di vista sia sociologico che urbanistico. Nel 1870, scrive Seronde, il cui libro è fondato su un’ampia ricerca di tipo sociologico, Roma «non si presentava certo con la conformazione di una città moderna, adatta alle esigenze del suo tempo»: l’area occupata da edifici religiosi, ad esempio, era il 20 per cento della superficie edificata. Era dunque indispensabile dare avvio alle trasformazioni necessarie ad accogliere i ministeri e gli altri uffici governativi, gli impiegati e le loro famiglie, le attività collaterali che ne sarebbero scaturite. È opinione comune a urbanisti, sociologi e storici che a Roma sia sempre mancato un progetto organico di sviluppo che desse vita a un piano regolatore generale adeguato, e che, anche quando furono approvati progetti ragionevoli, essi non vennero messi in pratica. Le «varianti» d’occasione hanno sempre avuto, e continuano ad avere, la meglio sui piani regolatori. Come ha messo in luce l’urbanista Italo Insolera, storico dello sviluppo di Roma moderna, degli errori e degli scempi che lo hanno caratterizzato, questo deleterio indirizzo ebbe inizio subito dopo il 20 settembre e segnò il destino urbanistico di Roma, dettato dalla speculazione privata, che non sempre è strumento della mano invisibile, dalle amministrazioni comunali e da quelle statali. Fra i sindaci di Roma, è giusto ricordarlo, spiccano per i loro sforzi di imprimere un nuovo indirizzo alle cose comunali Luigi Pianciani (1872-74; 1881-82), Ernesto Nathan (1907-13), Giulio Carlo Argan (1976-79), Luigi Petroselli (1979-81). Lo scempio della ville patrizie, subito iniziato dai principi romani d’intesa con gli affaristi locali e forestieri, gli sventramenti del centro storico, cominciati in età liberale e portati al culmine dal fascismo, il confinamento di tanta parte delle classi inferiori nelle borgate create dal fascismo e continuato poi nelle attuali incivili periferie, sono tutte ferite che hanno inciso e incidono nella città come luogo di lavoro e di vita. Certo, la città ha saputo riassorbire molte delle ferite che le erano state inferte. Ma la vitalità così dimostrata non cancella né attenua il giudizio sulle offese che ha ricevuto. Gli economisti parlano dei vantaggi che derivano ai late comers dalla possibilità di evitare gli errori dei primi arrivati. Roma, ultima arrivata fra le grandi capitali europee, non ha saputo approfittare di tali vantaggi. Ma forse questo deve dirsi dell’intera Italia.