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 2011  febbraio 25 Venerdì calendario

Svanisce la rete globale degli affari del Colonnello - Unicredit, l’Eni, la Juve e Finmeccanica, naturalmente

Svanisce la rete globale degli affari del Colonnello - Unicredit, l’Eni, la Juve e Finmeccanica, naturalmente. Ma anche l’Uganda Telecom, la Rwandtel del Ruanda, la metà della catena alberghiera Corinthia o una piccola quota nel colosso russo dell’alluminio Rusal; perfino una partecipazione nella Pearson, la casa editrice che pubblica anche il Financial Times. E ancora, la benzina Tamoil; immobili a Mayfair, nel cuore di Londra; discrete quote in ancor più discreti operatori di private equity, e soprattutto una montagna di liquidità: conti correnti a otto o nove zeri sparsi un po’ dappertutto, impieghi «a breve termine», certificati al portatore... Mentre Muammar Gheddafi è asserragliato a Tripoli, insomma, sull’impero finanziario del suo Paese, gestito dal fondo sovrano Lia - Libya Investment Authority - non tramonta mai il sole. Anche se altre stelle potrebbero calare presto nell’agitato firmamento della nomenklatura del paese africano. Il governatore della Banca di Libia Farhat Omar Bengdara, che è anche membro del consiglio della Lia nonché vicepresidente di Unicredit - dove Tripoli con il 2,5% della Lia e il 5% della Banca centrale è di fatto il primo socio - ad esempio, non risponde alle telefonate che arrivano dalla banca da quasi una settimana. Caso inedito, per le società italiane, quello di un consigliere «missing in action». Ma più in generale, per tutti i vertici del fondo sovrano - ovviamente legati a filo doppio a Gheddafi - il futuro è incerto. Ma quanto denaro ha in tasca la Lia e che cosa controlla? La prima risposta è per forza approssimativa, visto che il fondo libico non è esattamente un modello di trasparenza. Una recentissima classifica del Sovereign Wealth Institute lo mette al trentacinquesimo posto su quarantacinque fondi sovrani - alle spalle di Zimbabwe e Kazakhstan - proprio per gli scarsissimi punteggi raggiunti su pubblicità del patrimonio, meccanismi decisionali e dettagli degli investimenti. Istituita nel 2006, dopo la fine delle sanzioni legate alla strage di Lockerbie, e destinata a canalizzare i proventi del petrolio verso investimenti in tutto il mondo con l’obiettivo di diversificare il portafoglio libico, la Lia ha avuto una dotazione iniziale di 40 miliardi di dollari, ma ha anche raccolto una serie di società e fondi preesistenti. Dunque il patrimonio complessivo si può stimare tra i 60 e gli 80 miliardi di dollari. Sotto il suo ombrello una moltitudine di sigle. Dal Lap, il Libyan african investment portfolio, alla Lafico, la Libyan foreign investment company, che ad esempio possiede il 7,5% della Juventus. Proprio ieri l’agenzia Reuters ha dato notizia di un rapporto diplomatico Usa, rivelato da Wikileaks - si tratta di una relazione dell’ambasciatore americano a Tripoli dopo un incontro con il presidente della Lia Mohamed Layas - secondo cui il fondo libico avrebbe 32 miliardi di dollari in contanti, parcheggiati presso numerose banche americane in tranches che non superano mai i 500 milioni, mentre investimenti sarebbero stati fatti con operatori di grosso calibro come la Fm Capital Partners. A Tripoli, spiega poi l’ambasciatore, sarebbero anche investitori più accorti di tanti grandi nomi americani: Layas gli avrebbe infatti riferito di non aver accettato le proposte di investimento di Bernie Madoff né di un altro meno celebre finanziere-truffatore come Allen Stanford. Il legame privilegiato - a suon di investimenti - con l’Italia è comunque evidente e ha seguito in tempo reale la strategia diplomatica inaugurata da Silvio Berlusconi nell’ultimo biennio, quando molti personaggi di spicco della nostra finanza si sono proposti come interlocutori privilegiati di Tripoli. Il momento più emblematico, forse, quel 12 febbraio 2009 in cui poteri italiani e libici si ritrovarono a Palazzo Grazioli per la visita del Rais. Nell’occasione Abdelhafid Zlitni, ministro della pianificazione di Tripoli, parlò con sicurezza di un fondo congiunto da 500 milioni tra Lia e Mediobanca, all’epoca presieduta da Cesare Geronzi, del quale non si è poi avuta alcuna notizia. Ma anche consiglieri e soci di Unicredit e di piazzetta Cuccia, come Fabrizio Palenzona e Salvatore Ligresti, si adoperavano per l’arrivo dei nuovi capitali in Unicredit - allora guidata da Alessandro Profumo - e altrove; e negli stessi mesi Marco Tronchetti Provera, tra l’altro vicepresidente di Mediobanca, entrava nell’«advisory board» della Lia da cui è uscito solo due giorni fa. Quella sera, come spesso accade, era gran comunicatore di cose - anche - nordafricane, l’immancabile Tarak Ben Ammar: «Confermo quanto detto da Muammar Gheddafi. D’ora in poi la Libia darà la priorità all’Italia per il 90% dei suoi investimenti all’estero». Una figura, quella del produttore e finanziere franco-tunisino che deve essersi davvero conficcata nell’immaginario popolare nei suoi legami con Tripoli se ieri il quotidiano leghista «La Padania» ha dedicato, con tanto di sua foto, un ampio articolo intitolato «Non si hanno più notizie di Tarak Ben Ammar» alle vicende che in realtà riguardano la forzata assenza di Bengdara, il governatore della Banca di Libia.