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 2011  febbraio 25 Venerdì calendario

LA FAVOLA DELLA RIVOLUZIONE WEB


Egocentrici, abituati a raccontare il mondo con i nostri occhi e i nostri mezzi. E soprattutto le nostre mode. Siamo noi, il mondo occidentale. Invaghiti di Facebook e Twitter, spesso ne parliamo a sproposito senza nemmeno sapere che cosa sono questi social network, a cosa servono, chi li usa e come.
Da Washington a Londra, passando per gli altri centri del potere mediatico, la rivoluzione in Maghreb e Medio Oriente è diventata subito la Rivoluzione del web, con i suoi Ribelli di Internet. Giriamo in Ferrari, noi, almeno sul web e con una Ferrari vogliamo spiegare il mondo in bicicletta del Terzo Mondo della Rete. Paesi che sul web non corrono, al massimo camminano. Numeri alla mano non possono, non potrebbero davvero sostenere una rivoluzione nata sul web: in Libia solo il 5% ha accesso alla Rete, e in alcune zone nemmeno ci si può connettere.
E allora non può essere il modaiolo “tweet” ad aver convinto interi popoli a dire basta, radunarsi. Se ci si chiede cos’è stato, bisogna tornare all’epoca in cui le Ferrari non c’erano, ma le biciclette sì: la risposta è la radio. Radio libere di nome, semilibere di fatto, che hanno annusato l’aria che tirava e fatto quel che Twitter e il mondo dell’online non potevano fare: radunare la gente in un secondo, via etere, senza nemmeno dover fare propaganda, ma solo dicendo «in tale piazza a tale ora ci sarà una manifestazione antiregime». L’ha fatto Radio Mosaic, in Tunisia, ed è venuto giù tutto il Maghreb, l’ha fatto Radio Free Bendasi e Gheddafi ora è in un bunker sotterraneo, braccato come Hitler: da radio Londra a Radio Fcc, al Cairo non c’è poi gran differenza. Radio contro Internet: qui, almeno per una volta, il vecchietto chiacchierone ha battuto il giovane che va di fretta.
Basta girare una manopola e la radio parla: non serve un account registrato, né quei rudimenti di inglese che se non hai sei tagliato fuori dal web prima ancora di cominciare. Un dipendente di Radio Mosaic sotto anonimato spiega che la forza dell’emittente tunisina sta proprio in quello: «Parlare con tutti. Giovani e meno giovani, colti e meno colti, tecnologici e non». Rimanere connessi poi non era facile, con il Mubarak di turno che staccava tutto, spegnendo la luce, ovvero internet, ai ribelli tecnologici.
I social network, è innegabile, hanno aiutato a far uscire e entrare nei confini dei Paesi in rivolta le notizie che il resto del mondo voleva. Per il resto, tutti intorno alle radio. Non può essere altrimenti nello Yemen, dove solo una persona su dieci ha accesso alla Rete, e così in Algeria (13,4%) o Siria (20%).
All’inizio, per le radio, era solo la fredda cronaca: però bastava. Raccontavano che a qualcuno lo status quo andava stretto. Chi ascoltava non si è più sentito solo o impaurito. Poi, quando il dittatore traballava, ogni notizia pendeva sempre più dalla parte dei ribelli. Ora sono tutti liberi, anche quelli il cui padrone era il cugino, la moglie, il prestanome del dittatore.
L’etere ha dato la spallata definitiva ai regimi, nata per mancanza di cibo e medicine, accresciuta sì dal tam tam del web, ma uscita dallo stato embrionale solo perché le care, vecchie antenne non hanno tradito. Radio, e pure tv, a cominciare da Al Jazeera, che non ha ufficialmente preso le parti di nessuno,ma al Cairo tutti hanno potuto vedere cosa succedeva a Tunisi, in Siria tutti hanno visto cosa succedeva in Egitto, e in Bahrein cosa succedeva in Siria. Alla fine, anche il popolo meno tecnologico della zona, la Libia, si è vista piombare in casa un mare di gente che chiedeva libertà tramite una televisione.
Inevitabile il finale. Tutti in piazza, senza iPhone, ammesso che sappiano cosa sia, e senza iPod, troppo lontano da questo mondo. Meglio la vecchia, affidabile radio a transistor, quelle da cui alcuni anziani, almeno in Italia, non si separano per conoscere il risultato della squadra del cuore. E invece lì, tutti a chiedersi, dietro a boati che solo per i distratti somigliano a quelli dello stadio, chiedono all’uomo con la radio incollata all’orecchio. Com’è finita? E non è una partita, è la rivoluzione.