Claudio Giunta, Saturno - il Fatto Quotidiano 25/2/2011, 25 febbraio 2011
L’AFFAIRE MICHELANGELO - A LEGGERLI
adesso uno in fila all’altro, tutti gli articoli di giornale che nel 2009 hanno parlato del crocifisso, si entra dopo un po’ in un loop di ripetizioni, espressioni stereotipate, giudizi di sesta mano, taglia e incolla da cinque minuti, a partire da lanci d’agenzia, comunicati ministeriali, articoli del giorno prima, risalendo fino alla madre di tutte le ripetizioni: internet.
Tre milioni e duecentocinquantamila euro, ma prima ne avevano chiesti quindici, no, addirittura trenta... Lunga e delicata trattativa... Si vede che è Michelangelo perché Michelangelo studiava, no sezionava i cadaveri, e una perfezione simile si ottiene soltanto studiando, no sezionando i cadaveri... E visitatori a carrettate, torpedoni pieni di scolari, pensionati, turisti, semplici cittadini che «quando c’è un capolavoro» allora sì, si muovono, ventimila a Roma, trentatremila a Trapani, novantamila a Milano. E a Trapani, il visitatore che non ti aspetti (“Giornale di Sicilia”): «Dodici immigrati sbarcati a Lampedusa, ospiti del centro di accoglienza, ieri hanno visitato la mostra Fulget Crucis Mysterium [...]. Si tratta di un gruppo di richiedenti asilo politico, prevalentemente di fede islamica»...
In questo loop informativo ci sono varie cose interessanti che vengono dette ma non vengono spiegate. Intanto, come poteva far presagire il fatto che il primo a cui era stato mostrato il crocifisso fosse il papa, in tutta la faccenda c’è uno strano, inusuale persino per l’Italia, coinvolgimento del clero.
Uscito dalla Camera dei deputati, il crocifisso va a Trapani: non per iniziativa del locale museo, ma del «vescovo Francesco Miccichè, che per l’occasione ha organizzato in città un percorso espositivo multisensoriale sul crocifisso fra arte, religione e devozione popolare»... Qualcuno potrebbe pensare che la religione qui abbia preso un po’ troppo il sopravvento sull’arte... L’idea che il crocifisso attribuito a Michelangelo possa essere visto, o forse debba essere visto, semplicemente come un’opera d’arte non sembra sfiorare nessuno. L’obiettivo, spiega il vescovo Miccichè, è trasformare i visitatori della mostra in «pellegrini dello spirito». E l’esposizione del crocifisso è un fatto «provvidenziale non solo per la straordinaria portata artistica dell’evento ma soprattutto perché ci ha dato la possibilità di riscoprire un patrimonio di cultura e di fede che rappresenta il cuore dell’identità del nostro popolo». Provvidenza, evento, identità, popolo: non si sta forse esagerando un po’, per una statuetta di legno di cm 41,3x39,7?
Dopo Trapani, Palermo, e qui, dato che il crocifisso viene esposto alla Galleria d’arte moderna, i vescovi stanno defilati (la pillola di sacro ce la mette il presidente del Senato Renato Schifani con una dichiarazione calibrata al “Giornale di Sicilia”: «In quest’opera c’è qualcosa di quasi divino nella sua dinamica plastica»). A maggio si torna in grembo alla Chiesa, perché il crocifisso arriva a Napoli, lungamente atteso, non per iniziativa della Soprintendenza napoletana, o dell’assessore alla cultura, ma perché il cardinale Sepe l’ha chiesto come favore personale al ministro. Così il «dinamico presule» può dichiarare che «la cultura è il respiro dell’anima», e che perciò «bisogna andare avanti su questa strada, proponendo altre mostre, gemellaggi, scambi con Firenze ad esempio, o con i Musei Vaticani. Napoli può dare molto...». E può proporre alla soprintendente di Firenze Acidini «una sorta di gemellaggio tra i due poli». Ma lui, il «dinamico presule», a che titolo parla? Spetta davvero a un vescovo dire quali mostre bisogna organizzare in città? Posto cioè che il crocifisso appartiene allo Stato italiano, ai cittadini italiani (e, come il crocifisso, i musei), si potrebbe credere che tocchi a loro, ai loro rappresentanti, decidere che cosa farne, o no?